Monsignor Carlo Maria Viganò è diventato una figura evanescente. Non perché turbi i sogni del Papa, ma perché la sua presenza è ormai sfuggente.
Viganò, ora formalmente accusato di scisma dall’ex Santo Uffizio, è irreperibile da anni. Le sue dichiarazioni sono state un crescendo di accuse, teorie complottiste e deliri teologico-politici, al punto che molti pensavano che il Vaticano lo avrebbe lasciato nel dimenticatoio. Tuttavia, Viganò mantiene un certo seguito, soprattutto tra i cattolici più reazionari degli Stati Uniti.
Un’ascesa discreta
Nato a Varese 83 anni fa e ordinato prete nel 1968, Carlo Maria Viganò ha scalato in modo discreto i ranghi della carriera vaticana. Come giovane ufficiale della Segreteria di Stato, risponde alla telefonata di un oscuro ricattatore, l’Americano, durante i giorni successivi alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Viganò è al cuore della Curia romana dell’era Wojtyla e ne condivide fasti e ideali. Nel 2009, Benedetto XVI lo nomina segretario generale del Governatorato, e poco dopo il suo nome inizia a essere noto per le sue scoperte su appalti irregolari. Scrive a papa Ratzinger, e una sua lettera finisce alla stampa nel primo caso Vatileaks. Benedetto XVI lo ascolta, ma lo allontana da Roma promuovendolo a Washington, una delle sedi diplomatiche più prestigiose. Qui Viganò lavora sodo, guadagna l’apprezzamento dei vescovi statunitensi e sembra riconciliarsi con il Vaticano. Fino all’elezione di Papa Francesco nel 2013.
La frattura McCarrick
Inizialmente i rapporti con Francesco sono buoni, ma presto si incrinano. Quando Bergoglio visita gli Stati Uniti, Viganò gli organizza un incontro con Kim Davis, una funzionaria del Kentucky arrestata per aver rifiutato licenze matrimoniali a coppie omosessuali. Francesco se ne accorge tardi e non gradisce. Ma è il caso del cardinale Theodore McCarrick a far esplodere il rapporto: McCarrick, potente arcivescovo di Washington, è accusato di ripetuti abusi sessuali. Viganò ne parla al Papa e, in seguito, lo accusa di voler insabbiare il caso. Nel 2018, Viganò pubblica una lettera in cui chiede le dimissioni del Papa e accusa il Vaticano. Col tempo, la vicenda si sgonfia, McCarrick è espulso dal collegio cardinalizio e poi dimesso dallo stato clericale. Le accuse di Viganò non reggono, ma la sua deriva scissionista è ormai iniziata.
Un ribelle tra complotti e politica
«Non so cosa sia successo», commenta il cardinale Parolin, dispiaciuto perché Viganò «era un grande lavoratore, molto fedele alla Santa Sede». L’influenza del riformismo di Francesco, unita ai contatti con i vescovi statunitensi reazionari, spinge Viganò a moltiplicare gli attacchi al Papa e al Concilio Vaticano II. Sostenitore di Trump, simpatizzante di Putin e convinto no-vax, Viganò critica Bergoglio per aver promosso i vaccini come “un atto d’amore”. Si scaglia contro il Great Reset, i complotti globalisti, la NATO, l’OMS, George Soros e Bill Gates. Quando Francesco decide di benedire le coppie gay, Viganò si scaglia contro «i servi di Satana».
Vicino ai lefebvriani
Accusa il Papa di difendere i migranti per favorire una «sostituzione etnica» e lo critica per le sue encicliche sull’ambiente. Si avvicina ai lefebvriani, dichiarando che «la sua difesa è la mia, le sue parole sono le mie» riferendosi a monsignor Marcel Lefebvre. L’ultima iniziativa di Viganò, che ha fatto traboccare il vaso, è la decisione di ristrutturare un eremo vicino a Viterbo per accogliere le presunte vittime delle «epurazioni bergogliane» e combattere la «gerarchia modernista». Uno scisma ormai consumato, in attesa solo del sigillo ufficiale.