Roma, un’aula di tribunale vuota. Il giudice sfoglia l’ultimo fascicolo, firma l’archiviazione, e con un colpo di penna chiude un capitolo lungo sette anni.
Stefano Esposito, ex senatore Pd, si lascia cadere su una sedia, il volto segnato da rughe profonde non solo per l’età, ma per un incubo che lo ha stritolato. “2589 giorni”, ripete, quasi a voler scandire il tempo di una prigionia che, pur senza sbarre, lo ha isolato e marchiato come un colpevole ancora prima del verdetto.
L’accusa era di quelle che non lasciano scampo: corruzione, traffico di influenze, turbativa d’asta. Bastava pronunciare quelle parole per costruire il ritratto di un politico marcio, uno di quelli che l’opinione pubblica ama odiare. E così, senza processo, senza un verdetto, Esposito è diventato l’uomo da evitare, l’amico da dimenticare, il parente scomodo di cui non si parla a cena.
Una vita stravolta
“Non si tratta solo di me”, racconta oggi. “È mia moglie, è mio figlio, sono i miei amici. È la mia dignità, che è stata trascinata nel fango da un’accusa che si è rivelata infondata”. Quella dignità, tuttavia, non torna indietro con un’archiviazione. La vita, quando viene sconvolta, non può essere semplicemente rimessa in ordine come un mazzo di carte.
Esposito non è il primo a camminare lungo questo sentiero di dolore. Prima di lui c’è stato Enzo Tortora, il volto rassicurante della tv italiana, stritolato dalle accuse dei pentiti della camorra. Arrestato nel 1983, Tortora subì un processo mediatico che lo condannò molto prima che i giudici potessero dichiararlo innocente. Quando finalmente fu assolto, nel 1987, la sua vita era già devastata. “Sono un uomo distrutto, ma non vinto”, disse. Morì l’anno seguente, consumato da una battaglia che lo aveva logorato.
Il peso della malagiustizia
Come Tortora, Esposito ha vissuto un calvario fatto di solitudine e umiliazione. Le indagini hanno frugato nella sua vita privata, intercettato le sue telefonate, trasferito il caso da Torino a Roma, passando persino per la Corte Costituzionale. Ogni passaggio una nuova ferita, ogni ritardo una nuova notte insonne.
La giustizia italiana, con i suoi tempi biblici e i suoi clamorosi errori, non si limita a giudicare i fatti: stritola le persone, le riduce a ombre. Esposito oggi parla di cicatrici indelebili. Tortora, prima di lui, le definì “lacerazioni nell’anima”.
E che dire di Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 22 anni in carcere per un duplice omicidio mai commesso? O di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello, la cui condanna per l’omicidio di Yara Gambirasio continua a far discutere, mentre la sua vita è stata inghiottita da un processo mediatico senza appello?
La giustizia che uccide
Esposito è stato “fortunato”: l’incubo è durato “solo” sette anni. Eppure, quelle sofferenze lo hanno cambiato per sempre. “La giustizia ha ristabilito la verità, ma il prezzo è stato altissimo”, dice. Perché l’archiviazione non cancella le notti insonni, non restituisce il tempo rubato, non ripara i rapporti spezzati.
Una riflessione amara
La storia di Stefano Esposito è un monito. Non per chi è accusato, ma per tutti noi. Perché in un sistema giudiziario che sbaglia troppo spesso e troppo facilmente, nessuno è al sicuro. Oggi è Esposito, ieri era Tortora, domani potrebbe essere chiunque.
E allora ci si chiede: che valore ha una giustizia che non solo non protegge, ma distrugge? Che senso ha un sistema che trasforma gli innocenti in colpevoli e li lascia a marcire nell’indifferenza?
Esposito ha trovato la forza di raccontare la sua storia. Lo ha fatto per sé, ma anche per tutte quelle voci che non riescono a uscire dall’ombra. Perché in fondo, l’archiviazione di un caso non è mai davvero la fine. È solo l’inizio di una nuova battaglia: quella per ricostruire ciò che è stato spezzato. E, forse, per cercare una giustizia che sia davvero degna di questo nome.
di Antonio Del Furbo
antoniodelfurbo@zonedombratv.it