Meno stress, più produttività, riduzione delle assenze per malattia, maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata. Ma anche un impatto positivo sull’ambiente e una crescita dei consumi culturali.
Settimana corta: il testo torna in Aula. Rivoluzione o utopia? È questa la visione delle opposizioni dietro la proposta di legge che punta alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio. L’idea non è nuova, ma torna alla ribalta in Italia dopo che la Spagna ha dato il via libera alla sperimentazione della settimana corta.
L’iniziativa, firmata da PD, M5S e Alleanza Verdi e Sinistra, prevede di portare il tempo lavorativo a 32 ore settimanali, lasciando però libertà alle aziende di adottare modelli su quattro giorni. Una rivoluzione che, secondo i promotori, potrebbe ridisegnare il concetto stesso di produttività e benessere lavorativo. Ma le possibilità che questa legge veda la luce? Praticamente nulle. Il governo Meloni è contrario, e il centrodestra ha già tentato di affossarla lo scorso ottobre. Tuttavia, il dibattito resta vivo, soprattutto per i 17 milioni di lavoratori del settore privato, dove solo pochi privilegiati – quelli di colossi come Intesa Sanpaolo, Lamborghini, Lavazza e Luxottica – hanno già accesso a formule di flessibilità simili.
Come funzionerebbe la riduzione dell’orario?
Dimenticate l’idea che lo Stato possa imporre una settimana corta per tutti dall’oggi al domani. Il piano prevede incentivi economici per spingere imprese e sindacati a stipulare contratti collettivi nazionali o aziendali che riducano l’orario. Lo schema include sgravi contributivi per tre anni, finanziati con 275 milioni di euro annui. Le piccole e medie imprese beneficerebbero di una detrazione del 50%, mentre le grandi aziende avrebbero uno sconto del 30% sui contributi.
E se le aziende non aderissero? La proposta consente ai lavoratori di autorganizzarsi: se almeno il 20% dei dipendenti di una realtà produttiva chiede l’orario ridotto, si apre la strada a un referendum interno per decidere se adottarlo o meno. In pratica, il modello vuole trasformare un’utopia in una possibilità concreta, anche per chi lavora in contesti più rigidi e tradizionali.
Italia fanalino di coda: più ore, meno efficienza
A oggi, i numeri parlano chiaro. L’Italia lavora più della media OCSE, con dipendenti che superano facilmente le 40 ore settimanali. Il paradosso? Nonostante ciò, la produttività resta stagnante. Mentre nei paesi nordici e anglosassoni si punta su investimenti e innovazione, da noi la flessibilità resta un miraggio e la precarietà domina il mercato del lavoro. Chi ha un posto fisso spesso è sovraccarico di straordinari, mentre chi è precario lotta per arrivare a fine mese.
Secondo le opposizioni, l’attuale sistema non fa altro che favorire gli interessi delle imprese, che in Italia vantano la quota di salari più bassa e i profitti più alti d’Europa. Il risultato? Una spirale negativa che frena consumi e investimenti, impedendo una ripresa economica solida.
La sperimentazione nel settore pubblico
Nel frattempo, qualcosa si muove nella Pubblica Amministrazione. Il nuovo contratto delle Funzioni Centrali introduce la possibilità di lavorare quattro giorni a settimana senza riduzione dell’orario (che resta a 36 ore settimanali). Il lavoratore che sceglie questa opzione avrà meno giorni di ferie e permessi. Una piccola apertura che, seppur limitata, mostra che la discussione sulla settimana corta non è destinata a spegnersi tanto presto.
Cosa ci aspetta?
Dopo la sperimentazione triennale e la raccolta dei dati, la proposta di legge prevede un ulteriore passo: una riduzione strutturale dell’orario di lavoro, da definire tramite decreto. L’obiettivo è portare il tetto massimo a 36 ore settimanali, avvicinandoci ai modelli di altri paesi europei che già sperimentano formule simili.
Il dibattito è aperto e le posizioni restano distanti. Da un lato, chi sostiene che meno ore di lavoro porterebbero a una società più equa e dinamica. Dall’altro, chi teme che l’aumento dei costi per le imprese possa danneggiare la competitività. La Spagna ha fatto il primo passo. L’Italia seguirà?
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