Siamo alla Torre 7 dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. È venerdì sera. La sala d’aspetto del secondo piano, tra i reparti di nefrologia e oncologia, è occupata da dodici rom.
Non solo. L’occupazione va avanti da un mese e “Fanno il bello e il cattivo tempo”, racconta una persona che lavora nell’azienda sanitaria al Giornale. “Richiedono prestazioni inutili, alzano la voce, ci minacciano. Una situazione assurda”.
Tutto inizia un mese fa, a settembre, quando i nomadi si riversano sui divanetti del reparto per stare al fianco di un parente ammalato. “Una roba senza un minimo di igiene – spiega la fonte – Sono venuti anche con i bambini che andavano in giro con bici e monopattini lungo i corridoi”. La situazione, specie di notte, sfugge di mano. “Una parte se ne sta nella stanza con il paziente, mentre gli altri si accampano sui divanetti a dormire”. Le regole del nosocomio prevedono, o forse prevederebbero, orari di visita ben precisi: dalle 14 alle 21 nei giorni sia feriali che festivi. Ma le norme a quanto pare non valgono per i rom: “Gli infermieri sono stati costretti più volte a fornire cuscini e lenzuola ai componenti della famiglia che si fermavano per la notte”. Inutile la richiesta di intervento rivolta ai sorveglianti, che in un’occasione si sono limitati a dire ai paramedici di mettersi l’anima in pace perché “conoscete la situazione, non possiamo fare altro”.
A quel punto viene inviata una mail dalla caposala ai vertici dell’ospedale: “Sino all’una di notte – si legge nella missiva che il Giornale ha potuto leggere in esclusiva – vi è stato un via vai di trenta-quaranta persone in visita al paziente, recando estremo disturbo ai degenti ricoverati nelle altre stanze”. Una lettera di fuoco in cui si parla anche dei bagni per i visitatori “lasciati in condizioni disdicevoli” e dell’incapacità di “garantire la giusta tranquillità e il riposo da oltre tre settimane”.
A fare le spese della “prepotenza dei rom” sono stati soprattutto i medici del reparto oncologico.“Tre dottori sono stati esonerati dalle guardie notturne – spiega la fonte – perché i nomadi erano convinti ci fosse stato un ritardo nell’inizio della terapia”. La stanza di degenza è stata interamente dedicata ai rom, visto che “non era possibile lasciare un altro paziente lì con loro”. Anche la gestione delle cure è stato motivo di scontro con gli specialisti, costretti a realizzare esami e cure “che non avremmo somministrato a nessun altro in fase terminale”. Sono state imposte inutili trasfusioni di piastrine fino alla richiesta di dare il via ad un inefficace trapianto di fegato. Il malato, peraltro, poteva essere trasferito altrove visto che non c’era più nulla da fare. E invece “il suo posto è rimasto occupato” quando “un’altra persona magari ne avrebbe avuto davvero bisogno”. “Loro hanno questo modo di fare – continua l’operatore – ti dicono in malo modo cosa secondo loro devi fare, quali esami eseguire e quando. Ti si avvicinano a tanto così dal volto, alzano la voce e ti senti veramente tremare dalla paura”.
Lunedì pomeriggio la paziente è deceduta. A quel punto i responsabili e medici dell’oncologico temevano il peggio, che per fortuna non si è verificato. A trovarla in ospedale sono arrivati anche parenti agli arresti domiciliari. “Uno di loro mi ha preso a braccetto e mi ha accompagnato lungo i corridoi dell’ospedale – conclude la fonte – Poi mi ha detto: ‘Vede quanti siamo qua? Se succede qualcosa alla sua paziente, veniamo in tanti e facciamo un casino. Perché noi non abbiamo paura della polizia'”.