Il modulo d’azione è sempre lo stesso. Lo spacciatore viene braccato mentre vende la droga dai carabinieri della caserma Levante, che si trovano, curiosamente, nel posto giusto al momento giusto. La flagranza di reato obbliga a procedere all’arresto e al processo per direttissima. La procedura dei militari, però, prevedeva altro.
Dal 2017 ad oggi la storia si è ripetuta periodicamente, a volte con cadenza settimanale. Rendendo i carabinieri del gruppo dell’appuntato Giuseppe Montella i più fortunati.
Quaranta arresti che sono finiti tutti sotto inchiesta. I magistrati della procura di Piacenza stanno cercando di capire quante di quelle catture in flagranza siano il frutto del “metodo Montella”. Un metodo che annoverava, tra i suoi “strumenti”, il pestaggio, la tortura, il ricatto, il traffico di droga. E che, nei prossimi giorni, potrebbe avere due conseguenze: l’iscrizione sul registro degli indagati di altri carabinieri e la contestazione dell’associazione a delinquere.
Gli arresti a raffica
Tra il 2016 e il 2017 l’attività dell’appuntato Montella non passa inosservata. Le operazioni fotocopia si susseguono. “Vende dosi di marijuana ma non si accorge dei carabinieri, arrestato” (20 luglio 2017), “Bloccato mentre spaccia ai giardini, picchia un carabiniere: profugo in manette”, (15 settembre 2017), “Vede i carabinieri, scappa e poi li aggredisce: addosso quaranta dosi di marijuana” (30 gennaio 2018), riportano i giornali dell’epoca. Nelle foto per la stampa posano sempre loro: l’appuntato Giuseppe Montella, l’appuntato scelto Giacomo Falanga, il maresciallo Marco Orlando comandante della stazione, il maggiore Stefano Bezzeccheri della Compagnia Piacenza, da cui la Levante dipende in via gerarchica. Ora tutti indagati.
I dubbi dei comandanti
L’allora comandante provinciale, il colonnello Stefano Piras, fece notare a Bezzeccheri, alla presenza di altri colleghi, che gli arresti del gruppo Montella erano tanti. Questo evidentemente era un bene per l’ordine pubblico, ma, osservava Piras, la priorità di una stazione come quella doveva essere il controllo del territorio, svolto da carabinieri in divisa, e non invece indagini effettuate da uomini borghese. “Un appuntato, senza la supervisione di un superiore, non può effettuare indagini anche banali come possono essere quelle sullo spaccio”, spiega a Repubblica un investigatore. L’anomalia della Levante era quella. Lo sapevano benissimo sia Montella, sia i suoi superiori. Da qui l’esigenza di avere un canovaccio degli arresti, per giustificarne il senso e l’esigenza.
L’appunto di Piras arrivò tra il 2018 e il 2019. Non ebbe conseguenze formali, ma da quel momento in poi il gruppo di Montella ridusse le operazioni. Del resto un successo, importantissimo, l’aveva già raggiunto: durante la festa dei carabinieri nel 2018 la caserma ricevette l’encomio solenne del Comando della Legione Emilia Romagna.
A marzo si riparte con gli arresti
La calma è durata fino al 3 marzo di quest’anno. Il maggiore Bezzeccheri viene convocato dal nuovo comandante provinciale, Stefano Savo. È una riunione di routine, ci sono anche altri ufficiali. Nell’incontro viene fuori che a Piacenza i numeri degli arresti non sono eccellenti. E così Bezzeccheri, appena uscito dalla stanza di Savo, e saltando la gerarchia, contatta direttamente Montella. “Vediamo di farne il più possibile (di arresti ndr), anche settimana prossima, almeno tre-quattro”, gli dice. Montella lo prende in parola. Nelle settimane successive quelli della Levante, secondo gli inquirenti, arrestano e torturano Ugochokwo Anyak, Peterson Shestani, Mohamed Elsayed, Quichimbo Zhigue.