L’inchiesta “Università bandita” ha evidenziato 27 presunti concorsi “truccati” e altre 97 procedure concorsuali poco chiare. Un terremoto che ha portato, nei giorni scorsi, alla sospensione del rettore di Catania e di nove professori, allargandosi agli atenei di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Quaranta i docenti indagati nel capoluogo etneo e 20 in altre università.
Una vicenda in cui il sistema dei baroni gioca un ruolo molto forte in grado di stabilire incarichi e carriere accademiche, privilegiando familiari e amici.
E, proprio oggi, è bene ricordare un nome di una persona che ha pagato con la propria vita l’andazzo di certe Università. Norman Zarcone. Norman, dottorando in Filosofia dell’università di Palermo, nel 2010 si suicidò lanciandosi dai locali della facoltà in viale delle Scienze. Aveva 27 anni. Di lui in questi giorni non si è parlato.
“Mio figlio, laureato con lode, intelletto finissimo, è finito come tutti gli altri figli di gente come me, non legata al malaffare universitario, in un limbo di disperazione e frustrazione, fino alla decisione finale, dalla quale è discesa la distruzione di tutta la mia famiglia” scrive il papà di Norman, Claudio Zarcone, in una lettera al ministro dell’Istruzione e dell’Università, Marco Bussetti.
Il prossimo 13 settembre ricorrerà il nono anno della scomparsa di Norman Zarcone, dottorando in Filosofia che, a causa del marcio dell’Università e di concorsi truccati, si buttò dal palazzo delle Scienze di Palermo morendo sul colpo. Laureato con 110 e lode, stava per completare il dottorato di tre anni, e i docenti gli avevano detto che per lui non c’era futuro all’Università. Così quel lunedì il giovane uscì di casa per andare all’Università, come al solito. Quella volta, però, salì sul terrazzo al settimo piano della Facoltà di Lettere a Palermo e si lanciò nel vuoto, morendo sul colpo. Un gesto meditato, preparato. In un quaderno lasciato a casa, scrisse una sorta di “testamento spirituale”, annunciando in pratica la sua morte.
Norman soffriva una situazione di precarietà e la mancanza di prospettive. Era fidanzato, voleva sposarsi, ma non poteva farlo senza avere un lavoro. “Per guadagnare 25 euro al giorno -raccontò il padre all’epoca- faceva ogni tanto il bagnino in un circolo nautico. Mi diceva che era anche un modo per imparare l’etica del lavoro”.
Norman probabilmente in un sistema meritocratico, piuttosto che basato su compiacenze e favoritismi, sarebbe potuto essere una persona in gamba. “Quel giorno -scrisse il padre in occasione di una cerimonia a Palermo, nel quartiere di Brancaccio in cui morì don Pino Puglisi- mio figlio decise di gridare nel modo più straziante possibile il proprio sdegno verso quell’inossidabile struttura di potere a conoscenze famigliari e di casta, che delegittima la massima agenzia formativa del sapere e della cultura. Ho scritto agli onorevoli, agli intellettuali, ma ho assistito a vergognosi caroselli d’omertà, se non di complicità. Quante insopportabili pacche sulle spalle ho ricevuto, quanti assordanti silenzi a corredo. Solo silenzi da parte delle istituzioni e della stessa stampa: la morte non fa più notizia se non c’è dietro un fatto scabroso, contorsioni sentimentali, perversioni mentali o uno dei valori-cornice di questa società che non premia i talenti, sbeffeggia le ambizioni e insulta i sogni”.
Oggi, papà Claudio torna sulla vicenda dopo l’inchiesta che ha scoperchiato il “sistema” università.
“Da nove anni -scrive Claudio nella lettera al ministro- lotto da solo per la memoria di mio figlio, suicida per delegittimazione accademica e per mafia dei colletti bianchi. Da nove anni grido “mafiosi!” senza aver mai ricevuto una querela: rifletta sui probabili perché, anche alla luce dei fatti di Catania. Mio figlio, laureato con lode, intelletto finissimo, è finito come tutti gli altri figli di gente come me, non legata al malaffare universitario, in un limbo di disperazione e frustrazione, fino alla decisione finale, dalla quale è discesa la distruzione di tutta la mia famiglia. Da nove anni aspetto che un pm mi dica qualcosa sulle indagini (ipotesi di istigazione al suicidio, ad esempio) o sulla chiusura delle stesse e da nove anni aspetto che un’eminenza grigia richieda gli atti di quel dottorato all’interno del quale mio figlio ha perduto la vita. Né Rettorato, né Miur hanno mai richiesto quei documenti per indagini interne (atto dovuto, mi pare), per poi trasmetterli alla Procura: e si sono succeduti Rettori e Ministri in nove anni”. “Vorrei -aggiunge Claudio- chiederle ufficialmente – sperando stavolta in un suo cortese cenno di riscontro – cosa intenda fare per la memoria di Norman. E cosa, per arginare il fenomeno mafioso delle baronie accademiche. La prego, mi risparmi gli appelli ai nobili princìpi di legalità e trasparenza che già sono condivisi in linea teorica, mi dica piuttosto, in concreto, quali deterrenze intenda attuare contro quel sistema “paramafioso” (parole dei pm di Catania) da sempre esistente e mai combattuto veramente. Io le dirò la mia e, la prego, ci rifletta un attimo prima di considerarla una fantasiosa elucubrazione. Si dovrebbe applicare l’articolo 416 bis del Codice penale (che più giù riporterò sommariamente), perché, al di là delle parole dei pm catanesi, questo tipo di associazioni sono mafiose anche se non sparano col kalashnikov: infatti il loro modo di uccidere è di carattere morale, sociale, di legalità, di merito, di trasparenza eccetera. Le intercettazioni telefoniche hanno dell’agghiacciante, si fa riferimento allo “schiacciare” i non appartenenti a quella mafia, con linguaggio e metodo mafioso. Così, hanno schiacciato mio figlio”.
In una nota trovata nel suo diario scrisse:“La libertà di pensare e anche la libertà di morire. Mi attende una nuova scoperta anche se non potrò commentarla”.