Roma, Palazzo dei Sogni (e degli Incubi) – È notte fonda, ma le toghe sono sveglie. Non per scrivere sentenze o discutere di giustizia, ma per l’ennesima guerra di trincea al Consiglio Superiore della Magistratura.
Quando la magistratura gioca a risiko: il plenum diviso e l’eterno ritorno delle correnti. Dopo cinque mesi di ritardi, rinvii e diplomazie fallite, martedì scorso il plenum ha finalmente approvato il famigerato Testo unico sulla dirigenza. Ma non aspettatevi fanfare e strette di mano. Qui si parla di politica, mica di giustizia.
Un plenum spaccato come una mela: 16 voti a 14, con astensione del vicepresidente Fabio Pinelli, che non ha neanche provato a nascondere il fastidio per le tensioni e i battibecchi degni di una telenovela. Sergio Mattarella, presidente del Csm, avrà certamente riflettuto su quanto lontana sia l’idea di una magistratura “unita, libera e indipendente” mentre osservava la frattura che si consumava sotto i suoi occhi. E mentre lui invocava l’unanimità, il vertice della giustizia italiana rispondeva con un sonoro: “Sogna, Sergio”.
La fabbrica delle nomine: un nominificio malato
In ballo non c’è solo un pezzo di carta, ma il destino delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari: chi guiderà i tribunali, le procure e gli uffici semidirettivi del Paese nei prossimi anni. Insomma, un affare ghiotto per chiunque voglia conservare o ampliare il proprio potere.
A spuntarla è stata la Proposta A, che valorizza la specializzazione dei magistrati ma lascia ampia discrezionalità al Csm, il che si traduce – dicono i detrattori – in un potere ancora più sfacciato delle correnti. L’alternativa, la Proposta B, puntava invece su un sistema di punteggi che avrebbe ridotto i margini di manovra, trasformando il Csm in una sorta di algoritmo umano. “Vince il nominificio malato”, tuona Andrea Mirenda. “Siete stakeholder di un sistema che condiziona la carriera di qualunque magistrato!”. Ma Carbone, laico di Italia Viva, ribatte: “Meglio questo che ridurre il Consiglio a un ufficio del personale”.
Tra accuse reciproche di inciuci e sospetti di accordi sottobanco, emerge il vero vincitore: un patto trasversale tra giudici progressisti di Area e i conservatori di Magistratura Indipendente, con l’aggiunta strategica del laico Ernesto Carbone e dei membri di diritto, la presidente della Cassazione e il procuratore generale. Una coalizione da manuale della realpolitik, che ha trovato il suo nemico comune nel gruppo anti-correnti, capitanato da Unicost, Magistratura Democratica e alcuni indipendenti.
Un nominificio o un’ufficio elettorale?
Mentre le correnti si accusano reciprocamente di essere il male assoluto, il vero gioco si consuma sullo sfondo: le elezioni dell’Associazione Nazionale Magistrati, previste per gennaio. È qui che si gioca la partita più importante, quella che stabilirà chi comanderà nella magistratura italiana nei prossimi anni. E così, tra una battaglia in plenum e una dichiarazione roboante, le varie fazioni affinano le strategie per conquistare voti e consenso.
Lo spettacolo però non finisce qui. Due settimane fa, i laici di destra, oggi paladini della trasparenza, si opponevano ferocemente al sostegno di Marco Gattuso, giudice di Magistratura Democratica, per le sue decisioni sui migranti. Oggi, però, siedono allo stesso tavolo con i “nemici” di ieri, uniti contro le proposte di punteggi. Qualcuno ha detto incoerenza? No, è politica.
Il Csm, tra sorteggi e carriere separate
In questo marasma, spunta anche l’idea del sorteggio per i membri del Csm e della separazione delle carriere tra giudici e pm. “State consegnando il Csm alla destra!”, accusa Roberto Fontana. Ma Chiarelli di Area risponde con sarcasmo: “Qui si sente già odore di campagna elettorale, altro che principi”. E mentre si discute, 150 posti direttiviattendono ancora di essere assegnati, lasciando tribunali e procure nel caos organizzativo.
E il futuro?
Il Testo unico, approvato a suon di polemiche, sarà davvero una svolta o solo l’ennesima toppa su un sistema in crisi? Le correnti non sembrano intenzionate a mollare la presa, mentre le riforme promesse da decenni restano in un cassetto. Una cosa, però, è certa: nella magistratura italiana, la politica ha messo radici profonde. E chi pensava che giustizia e politica fossero incompatibili, oggi può tranquillamente ricredersi.
La giustizia è cieca, dicevano. Ma forse è solo miope.
di Antonio Del Furbo
antoniodelfurbo@zonedombratv.it