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Paolo Scaroni massacrato dalla polizia, invalido al 100%

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«Nel settembre del 2005, al termine della sfida tra l’Hellas Verona e le Rondinelle, sono rimasto gravemente ferito in uno scontro tra tifosi ed agenti». Inizia così la mail che il tifoso del Brescia ci ha recapitato per chiedere giustizia. Una Giustizia, quella italiana, che appare distratta sugli abusi delle polizie.

«Nel settembre del 2005, al termine della sfida tra l’Hellas Verona e le Rondinelle, sono rimasto gravemente ferito in uno scontro tra tifosi ed agenti». Inizia così la mail che il tifoso del Brescia ci ha recapitato per chiedere giustizia. Una Giustizia, quella italiana, che appare distratta sugli abusi delle polizie. «Sono stato picchiato con il manganello durante una carica e poi sono rimasto molti mesi all’ospedale, due dei quali, in coma – continua Paolo – . Le mie funzioni fisiche sono state ridotte notevolmente, e nonostante la lunga riabilitazione a cui mi sottopongo da anni con molta tenacia, non avrò molti margini di miglioramento». Paolo ha una certezza:«l’unica cosa funzionante come prima nel mio corpo è il cervello, attivo come non mai. Dopo quattro anni non ho ancora stabilito se questa sia stata una fortuna. Ho perso il lavoro, sebbene abbia un padre caparbio che insiste nel mandare avanti la mia ditta, sottraendo tempo e valore ai suoi impegni. Ho perso la ragazza. Ho perso il gusto del viaggiare (il più delle volte quelli che erano itinerari di piacere si sono trasformati in veri e propri calvari a causa delle mie condizioni fisiche). Ho perso soprattutto molte certezze, relative alla Libertà, al Rispetto, alla Dignità, alla Giustizia e soprattutto alla Sicurezza». Il giudice ordina di procedere e otto celerini di Bologna finiscono per essere processati.

«La mia storia è simile a quella di Federico Aldovrandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Carlo Giuliani… La differenza è che io sono ancora vivo e posso parlare» ha dichiarato a L’Espresso Paolo Scaroni. Il 36enne di Brescia ha un piede paralizzato. «La cosa che mi fa più male è che mi hanno cancellato l’infanzia e l’adolescenza. Ho perso tutti i ricordi dei miei primi vent’anni di esistenza». Subito dopo la partita i tifosi del Brescia sono stati scortati in stazione per poi essere picchiati in ben tre cariche della polizia. Foto scattate in quegli istanti rappresentano donne con seni tumefatti e ragazzi con mani fratturate. Paolo ha la testa fracassata: soccorso dagli amici, si rialza, vomita, sviene. Alle 19,45 entra in coma. L’ambulanza arriva con più di mezz’ora di ritardo. La versione ufficiale della polizia di Verona racconta di violenze innescate dalla tifoseria. Tutto falso. La poliziotta scopre, tramite le dichiarazioni del personale del treno, che i tifosi erano tranquilli e non occupavano il binario. La Polfer e la Digos confermano che i poliziotti hanno lanciato dentro ai vagoni, con bambini, lacrimogeni. I tifosi, per il gesto della polizia, hanno chiesto spiegazioni ma sono stati malmenati per 30 minuti in pieno stile da Stato di polizia. Quel 24 settembre 2005 Paolo lo ricorda bene. La polizia colpisce uomini e donne, famiglie e ragazzi senza distinzione alla fine della partita di calcio. Nella macelleria ci capita anche Paolo che finisce in coma e che i medici lo danno per spacciato. Dopo 34 giorni al buio però il ragazzo si risveglia. Accenna a parlare con molta fatica cominciando a raccontare tutto ad una poliziotta con il coraggio di aprire un’inchiesta sui colleghi. La commissaria scopre verbali truccati, testimonianze insabbiate e, soprattutto, filmati introvabili. Nel frattempo, colleghi della poliziotta, cominciano a parlare scoprendo la falsa versione ufficiale del dirigente della questura.

«Nella maggior parte dei paesi europei – scrive Paolo – le forze dell’ordine indossano divise provviste di codici identificativi. Grazie a questo semplice codice, ogni agente potrebbe essere identificato da parte della Magistratura nel caso in cui si rendesse reo di condotte penalmente rilevanti, come nel mio caso. I poliziotti che mi hanno pestato erano tutti a volto coperto, quindi non identificabili. La sentenza del primo grado al mio processo ha portato all’assoluzione per insufficienza di prove di sette poliziotti imputati. Eppure la corte ha stabilito che è stato usato un manganello, che sono stati scagliati più colpi, che lo strumento era vietato dal Ministero dell’interno, che la carica della polizia non era stata autorizzata, che il lancio di lacrimogeni era esagerato per la situazione, che le lesioni potevano cagionare la morte e che le riprese dei fatti siano state manomesse. La polizia è colpevole ma il fatto che i poliziotti avessero agito a volto coperto ha portato ad un’impossibilità di stabilire chi ci fosse dietro quei passamontagna. Le responsabilità della polizia sono state accertate. Ma non ci sono colpevoli, non possono esserci. I codici identificativi non sono penalizzanti in alcun modo per le forze dell’ordine che non hanno nulla da nascondere, anzi rappresenterebbero anche per loro l’opportunità di riacquisire credibilità. Chiedo che anche in Italia i codici identificativi sulle divise delle Forze dell’Ordine vengano resi obbligatori». Ora Paolo chiede di firmare questa petizione.

Antonio Del Furbo

 

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