“Mi sentivo in pericolo di vita, sapevo di cosa fossero capaci. Conosco le atrocità del mondo della droga, dove non esistono amicizie né sentimenti”.
Fabrizio Capogna, durante la sua lunga testimonianza nel processo per l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, noto come ‘Diabolik’, ha delineato i legami e i meccanismi del narcotraffico nella capitale. Ha descritto come, giovanissimo, ha iniziato nelle piazze di spaccio, affrontando la concorrenza di chi voleva imporsi come miglior fornitore, tra rapine, tentativi di sequestro e minacce di morte legate agli affari della droga. Capogna, diventato collaboratore di giustizia insieme a suo fratello Simone nell’ottobre 2023, ha risposto come testimone assistito alle domande del pm Francesco Cascini da un luogo segreto, collegato all’aula bunker di Rebibbia.
L’ascesa a Tor Bella Monaca
Capogna, con un passato segnato da diversi periodi di detenzione, ha raccontato la sua scalata nel narcotraffico. “Sono partito dalle piazze di spaccio di Tor Bella Monaca e sono diventato narcotrafficante. A 18 anni lavoravo in una piazza di spaccio e alla fine ne avevo una tutta mia”, ha detto ai giudici della Terza Corte di Assise di Roma, descrivendo i suoi rapporti con personaggi come Leandro Bennato, Giuseppe Molisso, Lolli (un grosso fornitore albanese con base ad Amsterdam) ed Elvis Demce. “Non mi piaceva, voleva fare il padrino, diceva ‘a questo gli bruciamo questo’. Non mi piaceva”, ha spiegato Capogna. Lolli, ha detto Capogna, “offriva il prezzo più vantaggioso per la cocaina, facevamo 100-120 kg al mese, lavoravamo con mezza Roma, da Tor Bella Monaca a Magliana”.
Le alleanze nate in carcere
Molti rapporti sono nati in carcere. “Conoscevo Giuseppe Molisso di nome, poi ho condiviso la cella con lui. Eravamo diventati amici”, ha ricordato Capogna, che descrive diversamente il rapporto con Leandro Bennato. “A Bennato davo la droga, ma poi ha iniziato a fare il prepotente, chiedendomi ‘che fai, lavori con l’albanese?’. Non mi piaceva, io ero per il business, non per le discussioni”.
La guerra per le piazze della capitale
Capogna ha raccontato di una rapina subita tra il 2017 e il 2018. “Mi hanno rapinato 10 kg di cocaina. A darmi l’appuntamento era stato Renato, ma all’incontro c’erano Aldo e altri due. Mi hanno minacciato con un AK47, una pistola e un coltello. Mi hanno detto che ce l’avevano con Lolli, non con me”. Dopo la rapina, Capogna ha discusso con Lolli, che gli doveva 260mila euro. Molisso, invece, ha detto di non aver preso nulla e di aver cercato di evitare che Capogna fosse ferito.
La piazza di Roma in mano ai romani
Simone Capogna, fratello di Fabrizio e anch’egli collaboratore di giustizia, ha confermato la rapina durante la sua testimonianza, affermando che Molisso sosteneva che “Roma doveva rimanere in mano ai romani”. Nel 2019, Fabrizio ha cambiato fornitore, associandosi a un altro soggetto e gestendo 50 kg di droga a settimana. Ha ricordato i legami con Dorian Petoku e Piscitelli, e come alcuni di loro picchiarono Calderon in carcere.
I rapporti tra gli albanesi e Piscitelli
Capogna ha spiegato come i rapporti tra suo cugino Petoku, altri vicini a Piscitelli e Molisso si fossero deteriorati, ritenendo Molisso e Bennato mandanti dell’omicidio di Piscitelli. Ha raccontato di lettere minatorie inviate a loro in carcere, e di come lui e Molisso avessero pianificato l’omicidio dei fratelli Costantino. “Quando c’è stato il tentato omicidio ai figli del ‘Verdura’ sapevo chi era la mente ma non l’esecutore”, ha detto.
La spedizione punitiva e la scelta di collaborare con la giustizia
L’epilogo della sua attività criminale è arrivato con un blitz notturno a settembre 2023, durante il quale Capogna è stato picchiato da sei persone. “Erano stretti collaboratori di Molisso e Bennato. Volevano portarmi via, ma la mia ex compagna ha visto delle sirene e ha gridato ‘le guardie, le guardie’, facendoli fuggire. Avevo paura di essere ucciso, e ho deciso di collaborare”.
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