Lui si chiama Francesco Morcavallo e, già qualche settimana fa, ha denunciato la sua situazione. Una sconfitta arrivata dopo una battaglia durata quasi quattro anni contro un “meccanismo perverso”. Si tratta, spiega Morcavallo, del più “osceno business italiano”: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia.
Dal settembre 2009 al maggio 2013 Morcavallo è stato giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna. Ne ha viste di cose. Come, ad esempio, quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’“internamento” negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma alla fine non ce l’ha fatta: a 34 anni ha lasciato la toga e si è messo a fare l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni.
In un’intervista a Panorama ha spiegato che gli allontanamenti nell’arco di un anno decisi da un tribunale dei minori mediamente sono “migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono”. “Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi “seguito” fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso”.
Morcavallo ha aperto uno squarcio sul metodo di lavoro al Tribunale di Bologna: “Noi giudici togati eravamo in sette -racconta- compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali. I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano ‘a geometria variabile’. Con un solo obiettivo. In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro ‘decisori’ che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore”.
A quel punto Morcavallo iniziò a scontrarsi con molti dei suoi colleghi e soprattutto con il presidente Millo. “Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea ‘meno invasiva’, la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Gli altri giudici, invece, sempre secondo Morcavallo, “Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto
e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.”
I procedimenti avevano tutti una base comune. “Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti ‘inadeguati'”.” Bastava, in sostanza, che arrivasse una segnalazione dei servizi sociali e che uno psicologo stabilisse che i genitori erano “troppo concentrati su se stessi”. Atti che diventavano inappellabili perché “L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla.”
Riguardo alle denunce di abusi sessuali in famiglia molte pratiche venivano aperte irritualmente a causa di lettere anonime. “Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché.”
Infatti i giudici onorari sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato. “A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come ‘tutore’ del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare. E, tra l’altro, i giudici onorari sono retribuiti con un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca.”
Chi nomina i giudici onorari? “Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica”. Una pratica che dovrebbe essere bloccata per legge dai presidenti dei tribunali e/o dal Csm.
Nel gennaio 2011 un neonato morì in piazza Grande. “La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo” spiega Morcavallo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti. Il presidente Millo mi chiamò. Disse: ‘convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà’. Risposi: ‘vediamo, prima, che cosa decide il collegio’. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani.
Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce.” Tornato a Bologna nel 2012, Morcavallo fu escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. “Capii allora perché un magistratro della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti.”
“Ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura. Ora faccio l’avvocato.”
Oggi, Morcavallo chiede una cosa molto semplice: “Una nuova legge”.