Si chiama Ahmadreza Djalali, e fino a poco tempo fa è stato in Italia per contribuire alla ricerca.
“Sono passati nove mesi dall’arresto di mio marito in Iran — racconta Vida Mehrannia —. All’inizio non ho denunciato la cosa perché un poliziotto ha chiamato la mia famiglia a Teheran avvertendo che non dovevo parlarne, e io temevo di danneggiare la situazione”.
Djalali fino al 2015 è stato ricercatore all’Università del Piemonte Orientale: ora si trova nel carcere dell’Iran perché condannato alla pena di morte. Lo Stato ha mosso contro il medico l’accusa “di essere una spia e di aver collaborato con stati nemici”.
La situazione ora è drammatica perché la sua esecuzione avrà luogo entro due settimane.
“Non posso più tacere: ieri Ahmad ha chiamato sua sorella, le ha detto che sarà giustiziato con l’accusa di collaborazione con Paesi nemici. Pensano che sia una spia. Ma è solo un ricercatore” ha aggiunto ancora la moglie.
Djalali, è un iraniano di 45 anni, sposato e padre di due bambini, ed è un medico ricercatore nell’ambito della medicina dei disastri. Negli ultimi anni ha lavorato come ricercatore presso il CRIMEDIM, centro di ricerca in medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale, con cui ha continuato a collaborare fino al momento della sua reclusione.
Ad aprile 2016, durante la sua ultima visita in Iran su invito dell’Università, è stato arrestato e da allora è detenuto nella prigione di Evin a Teheran. È stato posto in isolamento nella sezione 209 per 7 mesi, periodo in cui gli è stato negato il diritto di essere difeso da un avvocato. A dicembre ha iniziato uno sciopero della fame che ha aggravato seriamente le sue condizioni di salute.
Il medico ha informato la famiglia di essere stato obbligato a firmare una confessione dal contenuto ignoto. La famiglia, però, è convinta che contro Ahmad non vi sia nessuna prova. La comunità scientifica ritiene che l’unica ‘colpa’ del medico possa essere quella di aver collaborato con ricercatori di Stati considerati nemici nel corso della sua attività scientifica, volta al miglioramento della capacità operativa degli ospedali in Paesi colpiti da disastri.
La famiglia Djalali vive a Stoccolma dal 2009 poi si è spostata a Novara, dove dal 2012 al 2015 Ahmad è stato assegnato al Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. Lo scorso 24 aprile, mentre era a Teheran su invito dell’Università, è scomparso. Ad aprile non si è presentato a un incontro a Novara.
“Quest’uomo è in grave pericolo”, dice da Oslo Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights, una Ong contro la pena di morte. “Salavati è noto per le condanne a morte contro presunti oppositori politici. Nei Tribunali della Rivoluzione il livello di arbitrarietà è enorme. Il regime è paranoico e i mesi che precedono le elezioni presidenziali sono i più rischiosi”.