Nel lungo elenco di chi ha pagato con la vita la lotta alla mafia, Mauro Rostagno spesso non viene ricordato quanto meriterebbe.
Mauro Rostagno: il giornalista che sfidò la mafia e pagò con la vita. Non è celebrato come un guru del ’68, non viene annoverato tra i pionieri dell’informazione indipendente e nemmeno tra i terapeuti rivoluzionari che hanno affrontato l’emergenza eroina. Eppure, è stato tutto questo e molto di più.
“Un uomo in continua metamorfosi, capace di adattarsi, cambiare pelle e ruolo, senza mai tradire il suo senso di giustizia e la sua missione sociale”. Così lo descrive Roberto Saviano nel documentario Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo, che andrà in onda su Sky Documentaries. Attraverso filmati d’epoca e testimonianze di chi l’ha conosciuto, il documentario ripercorre la vita e il martirio di un uomo che non si è mai fermato, che ha attraversato il Novecento senza sottomettersi, con la barra dritta verso un solo obiettivo: la verità.
Dalla fabbrica alla rivoluzione culturale
Torinese di origine, Rostagno inizia il suo percorso come operaio, vivendo in prima persona l’alienazione del lavoro in fabbrica. Da lì si immerge nei movimenti studenteschi e diventa un protagonista di Lotta Continua, movimento politico che segna il ’68 italiano. Ma non si ferma: il suo percorso è in continuo mutamento, non accetta dogmi e rifugge ogni forma di ideologia statica.
Negli anni successivi abbraccia la filosofia di Osho, partendo per l’India alla ricerca di una nuova dimensione spirituale. Non si tratta di una fuga, ma di un’evoluzione personale che lo porterà a costruire, anni dopo, la comunità Saman in Sicilia. Qui, a differenza delle rigide strutture di recupero per tossicodipendenti dell’epoca, propone un modello basato sulla libertà e sul reinserimento umano, rifiutando l’idea che chi cade nella droga debba essere considerato un criminale o un reietto.
Il giornalista che sfidò la mafia trapanese
Ma l’impegno sociale di Mauro Rostagno non si ferma alla comunità Saman. Spinto da un irrefrenabile bisogno di giustizia, si reinventa giornalista d’inchiesta, utilizzando una piccola emittente locale, RTC, per dare voce a chi non ce l’ha. In un’epoca in cui le televisioni regionali si occupavano prevalentemente di sport e televendite, Rostagno trasforma la sua trasmissione in un’arena di denuncia senza filtri.
Ogni giorno smaschera le collusioni tra mafia, politica e massoneria, arrivando persino a mostrare in diretta le logge segrete e a rivelare il sistema criminale che governa Trapani. Non si limita alle parole: porta prove, fa nomi, inchioda i responsabili di un sistema marcio fino al midollo. Il suo coraggio, però, lo condanna a morte.
L’omicidio e il lungo depistaggio
Il 26 settembre 1988, mentre rientra alla comunità Saman, Mauro Rostagno viene freddato a colpi di fucile. Una morte annunciata, ma che in un’Italia ancora impregnata di omertà e connivenza fa fatica a trovare giustizia.
Le indagini vengono depistate sin dall’inizio: si cerca di collegarlo a presunti traffici illeciti, si insinuano ombre sulla sua comunità e perfino sua moglie, Chicca Roveri, viene accusata di favoreggiamento. Una macchina del fango orchestrata ad arte per distogliere l’attenzione dalla verità: Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia, per le sue inchieste, per il suo impegno, per la sua ostinata ricerca della giustizia.
Solo nel 2014, dopo anni di battaglie legali, vengono condannati i mandanti dell’omicidio, i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Una verità che, pur riconosciuta dai tribunali, non basta a cancellare anni di silenzio e menzogne.
Il ricordo di una figlia e il rifiuto della parola “vittima”
Maddalena Rostagno, sua figlia, allora quindicenne, vive il dolore della perdita in maniera complessa. “La mia prima reazione fu di rabbia. Non mi aveva mai detto fino in fondo i pericoli che correva”. Un lutto difficile da accettare, che inizialmente la porta a prendere le distanze, ma che nel tempo la spinge a cercare la verità.
Nel documentario emerge anche questo: il ritratto di un padre presente e severo, ma mai autoritario. “Non voglio che sia ricordato solo come un martire della mafia”, dice Maddalena. “Mio padre è stato un terapeuta rivoluzionario, un uomo che pensava agli eroinomani non come a scarti della società, ma come esseri umani da recuperare. Non era un santo, e non era una vittima. Sapeva che rischiava, eppure ha deciso che ne valeva la pena”.
Mauro Rostagno, un esempio senza retorica
La storia di Mauro Rostagno non è solo quella di un giornalista assassinato dalla mafia. È il racconto di un uomo libero, che non ha mai smesso di cambiare e di mettersi in gioco, senza mai tradire i suoi ideali. Un rivoluzionario nel senso più autentico del termine, che ha pagato con la vita la sua battaglia contro il potere criminale.
Oggi, grazie a nuove narrazioni e a documentari come quello prodotto da Sky, la sua figura emerge in tutta la sua complessità, restituendogli il posto che merita nella memoria collettiva. Perché Mauro Rostagno non è solo una storia da ricordare: è un esempio da seguire.