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Mafie che uccidono donne e bambini

Mafia che uccide donne e bambini
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Esiste una credenza diffusa secondo la quale le mafie eviterebbero di colpire donne e bambini. È un pensiero che forse aiuta a sentirsi più al sicuro, come se il pericolo fosse circoscritto ai soli membri delle cosche, e bastasse non interagire con quel mondo per essere al riparo.

Mafie che uccidono donne e bambini. Tuttavia, questa visione tralascia un elemento fondamentale: i mafiosi non portano un marchio distintivo, e una volta entrati in quel sistema, è quasi impossibile uscirne.

Purtroppo, non c’è distinzione per sesso o età. La mafia non risparmia nessuno. Donne innocenti, spesso senza alcuna colpa, sono state uccise solo perché legate a uomini di mafia, intrappolate in matrimoni da cui non potevano scappare o perché hanno avuto il coraggio di ribellarsi.

Lea Garofalo, per esempio, è stata assassinata dall’ex compagno Carlo Cosco per aver tentato di allontanarsi con la figlia Denise. Rita Atria, figlia di un boss mafioso, si tolse la vita a 17 anni dopo la morte del giudice Paolo Borsellino, l’uomo che le aveva promesso protezione dopo aver deciso di testimoniare contro i killer della sua famiglia. E poi c’è Maria Concetta Cacciola, sposata con un affiliato alla ‘ndrangheta, uccisa dalla sua stessa famiglia perché sospettata di tradimento.

Queste donne, e molte altre come loro, hanno pagato con la vita per essere nate o aver amato uomini legati al crimine organizzato. Non hanno commesso alcun reato, ma sono state uccise in modo brutale.

Un esempio recente è Maria Concetta Cacciola, che morì nel 2011 “suicidata” con acido muriatico. Aveva 31 anni ed era figlia di un boss di Rosarno. La sua è solo una delle tante storie di donne uccise dalla mafia, un fenomeno che continua a sfatare il mito del codice d’onore. Nel 2012, l’associazione DaSud ha contato oltre 150 donne uccise o spinte al suicidio dalla mafia, a partire dal 1896. Sono state vittime di vendette trasversali, faide, o punite semplicemente perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Donne come Rossella Casini, una giovane ragazza di Firenze che convinse il suo fidanzato a collaborare con la giustizia, solo per essere fatta a pezzi dalla mafia. Oppure Gelsomina Verde, vittima di una delle più brutali uccisioni della camorra, torturata e uccisa a soli 22 anni.

Queste storie ci ricordano che la mafia non si ferma davanti a nulla.

Colpisce donne innocenti, madri, figlie, amanti. Alcune di loro, come Marcella Di Levrano, diventano testimoni di giustizia, pagando con la vita la loro scelta di denunciare. Marcella, coinvolta per via della sua dipendenza dalla droga, decise di collaborare con le forze dell’ordine dopo essere rimasta incinta. Il suo coraggio la rese una minaccia per la Sacra Corona Unita, che la uccise brutalmente. La madre, Marisa Fiorani, dedica la sua vita alla memoria della figlia, parlando della sua storia nelle scuole e nei congressi.

Marisa, dopo aver perso sua figlia, ha deciso di incontrare e parlare con mafiosi in carcere. In queste conversazioni, Marisa cerca di capire il male che ha portato quegli uomini a commettere crimini così orribili. Racconta di incontri in cui, tra lacrime e abbracci, questi uomini confessano di non ricordare quante persone abbiano ucciso, di essersi persi dentro sé stessi.

Tra le storie quella di un tredicenne, costretto dal padre a uccidere per la prima volta, o di un giovane obbligato a uccidere il suo migliore amico per rispettare le regole della famiglia mafiosa. Marisa ha scelto di perdonare, e attraverso il suo dialogo con questi uomini cerca di trovare la pace, e una spiegazione a tutto questo dolore.

La mafia si combatte anche ricordando le vittime.

Come disse don Luigi Ciotti, “fare memoria” è un dovere. Dobbiamo ricordare queste donne e la loro sofferenza, perché il loro sacrificio non sia dimenticato.

Troppo spesso ci concentriamo sui nomi dei boss, dimenticando quelli delle vittime. Conosciamo i nomi dei carnefici, ma ignoriamo quelli delle donne, degli innocenti che sono stati uccisi. Il caso di Lea Garofalo è un esempio simbolico, un nome che dobbiamo ricordare.

Infine, un aspetto che non possiamo ignorare è il ruolo delle donne all’interno delle mafie stesse. Negli ultimi decenni, sempre più donne sono state indagate per associazione mafiosa, dimostrando come anche all’interno di questi sistemi criminali il patriarcato e il maschilismo restano radicati.

Il nostro compito è quello di fare memoria, di demolire i modelli mafiosi e di sostenere le donne che hanno il coraggio di opporsi. Come disse Rita Borsellino, l’impegno antimafia è un dovere. Ricordiamo queste donne, le loro storie, e non permettiamo che il loro sacrificio venga dimenticato.

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