Sulle stragi c’è ancora molto da sapere. E forse il giorno in cui si conosceranno i fatti è ancora lontano.
In uno speciale di Report su mafia, massoneria deviata, estrema destra e servizi segreti, che avrebbero contribuito a organizzare e ad alimentare una strategia stragista che puntava alla destabilizzazione della democrazia in Italia, si fa il punto su quell’epoca buia dell’Italia.
Salvatore Baiardo è un gelataio e uomo che agevolò la latitanza dei fratelli stragisti di Brancaccio Filippo e Giuseppe Graviano.
Baiardo riferisce di aver portato per conto di Giuseppe Graviano “una barca” di soldi a Silvio Berlusconi, indagato insieme a Marcello Dell’Utri per le stragi del ’93. Non solo. Baiardo aggiunge che il boss di Brancaccio e l’ex premier si sono incontrati “più di tre volte”. Rivelazioni, queste, che finirono in due informative scritte tra il ’96 e il ’97 da Francesco Messina, allora funzionario della Dia. Di questo passaggio ne ebbe contezza solo Gabriele Chelazzi, il magistrato che coordinò le indagini sulle autobombe del ’93 e ’94.
“Con Chelazzi parlai delle dichiarazioni di Baiardo in merito ai rapporti tra Graviano e Dell’Utri e disse che andava approfondito”, ha detto Messina. “In quel momento era una cosa che aveva una rilevanza notevole per cui formalizzammo con una vera e propria nota all’autorità giudiziaria”.
Informative che finirono dimenticate in qualche cassetto dopo che il pm Chelazzi venne trasferito di lì a poco alla Procura Nazionale Antimafia. Oggi la procura di Firenze con i magistrati della dda Luca Tescaroli e Luca Turco, coordinati dal Procuratore Giuseppe Creazzo, cerca di rimettere mano a quelle carte scottanti perché rilevanti ai fini delle indagini sui mandanti occulti delle stragi del 1993.Sempre secondo Baiardo Forza Italia è stato un partito “totalmente finanziato dalla mafia, e non solo”.
Oltreoceano
Gli avvocati di Berlusconi negano categoricamente che il Cavaliere abbia avuti simili contatti neppure indiretti. Report ha trovato altre carte dimenticate e di notevole importanza. Si tratta di un verbale del 2 gennaio 1998. In ballo ci sono contatti tra uomini di Cosa nostra, servizi segreti deviati e P2 con un filo che conduce oltreoceano. Chelazzi in quel periodo stava indagando sui presunti mandanti esterni delle stragi: Dell’Utri e Berlusconi. Fu ascoltato Angelo Siino, ministro, in senso figurato, dei lavori pubblici della mafia a Palermo. Siino aveva ricevuto confidenze da uno degli esecutori delle bombe di Capaci, Nino Gioè, conosciuto in carcere a Rebibbia. Gioè gli rivelò che il mediatore occulto tra Forza Italia e Cosa nostra era l’ex capitano delle Fiamme Gialle ed ex consulente Fininvest nonché già deputato di Fi Massimo Maria Berruti.
Poco dopo quelle rivelazioni Nino Gioè venne ritrovato impiccato con due lacci di scarpe in una cella del carcere.
Suicidio secondo gli inquirenti. Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato mosse qualche dubbio. Il boss venne ritrovato con quattro costole rotte e il segno del laccio al collo non era nella direzione della forza di gravità. Scarpinato conferma che Gioè secondo pentiti “stava per collaborare con la giustizia” e inoltre che “era anello di collegamento tra Cosa nostra e servizi”. Il boss aveva infatti avuto un passato come paracadutista delle forze speciali e il cugino collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo lo iniziò ai servizi. Di Carlo aveva ribadito a Report che i servizi “lo hanno fatto suicidare in carcere”.
Gioè quindi era un soggetto informato di fatti di altissima rilevanza, come detto fu l’esecutore insieme a Giovanni Brusca della strage contro Giovanni Falcone e pare come ha affermato Gioacchino Genchi che fece diverse telefonate in Minnesota, Stati Uniti, due ore prima dell’esplosione. Telefonate “fatte anche da altre utenze, anche da Roma con cellulari che hanno chiamato anche Palermo quando Falcone era partito”, ha spiegato Genchi che indagò su quelle chiamate.
“Le chiamate fatte negli Stati Uniti da parte degli uomini che avevano operato e si erano sentiti tra loro negli attimi della strage erano molteplici”, ha aggiunto. Il magistrato Gabriele Paci che riferisce dell’incontro tra Totò Riina tra Matteo Messina Denaro, e Saro Naimo, definito come l’alter ego di Riina in America al quale il Capo Dei Capi disse “se mi succede qualcosa devi parlare con lui (Matteo Messina Denaro, ndr)”. In quegli anni c’era l’idea di fare della “Sicilia un altro Stato americano”.
L’ex carabiniere e Messina Denaro
L’attenzione è concentrata su Matteo Messina Denaro. Il boss è latitante da 28 anni. I magistrati hanno fatto arrestare amici, compagni, alleati e familiari fino alle più recenti generazioni accusati di aver facilitato la sua latitanza. Ma Messina Denaro è introvabile. Report è riuscito a intervistare un uomo che dice di essere amico di “un ex ufficiale dei Carabinieri e poi dipendente in una banca di Palermo dove lavorava sotto copertura per il servizio segreto civile” che avrebbe favorito la latitanza del capo mafia di Castelvetrano. Questo ex carabiniere avrebbe incontrato la “primula rossa” “in momenti topici”.
L’uomo, a detta del testimone, “lavorava come uomo di banca infiltrato dando consulenze finanziarie a boss del mandamento di San Lorenzo”. Da uomo infiltrato sarebbe diventato “una specie di ufficiale di collegamento” tra mafia e servizi. Arrivando addirittura a intrattenere corrispondenze epistolari in suo nome ma sotto falsa identità, tale “Alessio”, con il sindaco di Castelvetrano ed ex infiltrato del Sisde Antonio Vaccarino, condannato per favoreggiamento e deceduto pochi giorni fa.
“Protocollo Fantasma”
E siamo al tema della mancata perquisizione del covo di Totò Riina nella villa in via Bernini a Palermo. Documenti inediti trasmessi dal programma parlano di un covo che invece, a differenza di quanto sostiene l’ex generale del Ros Mario Mori, è stato perquisito e svaligiato non da uomini di Cosa nostra ma da uomini infedeli di Stato. Il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè disse che il contenuto di altissima riservatezza custodito nella cassaforte di Riina venne consegnato nelle mani di Matteo Messina Denaro dai boss che grazie alla scelta di non perquisire il covo da parte dei carabinieri guidati da Mori, erano riusciti a entrare e prelevare documenti e carte preziose. Il documento è il cosiddetto “Protocollo fantasma”.
Un plico di carte anonimo giunto sulla scrivania del magistrato Nino di Matteo nel 2012 al tempo pm del processo Trattativa.
Il suo contenuto era finora segreto e sulla questione del covo di Riina è oggettivamente sconvolgente:
“La perquisizione fu fatta… in quel momento venne altresì sospeso il servizio video sul covo di Salvatore Riina… furono trovate armi, munizioni, un Papello con scritti nomi di politici locali, personaggi di spicco con poltrone al Vaticano, al Colle, a Montecitorio, a palazzo Chigi, al Csm e in qualche Procura tutti inseriti in un altro libro paga con specificati favori e abbondanti bonifici bancari”.
La collaboratrice di giustizia Giusy Vitale aveva detto che nella cassaforte di Riina in via Bernini “c’erano documenti da far saltare lo Stato”. E la perquisizione secondo Alfonso Sabella, ex sostituto Procuratore di Palermo, non è stata fatta perché “chi ha venduto Riina ha venduto solo Riina e non l’associazione Cosa nostra” aggiungendo che “probabilmente questo stava nel patto” tra lo Stato e la mafia.
Di Matteo
Nino Di Matteo è riuscito a chiedere ed ottenere, insieme ai colleghi Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, la condanna di Mori davanti alla corte d’Assise di Palermo. Di Matteo, oggi consigliere togato al Csm, ha ricordato che Mori era stato coinvolto nell’indagine ‘Rosa dei Venti’ (Organizzazione paramilitare parallela a Gladio, ndr) della procura di Padova a proposito di un’ipotesi di suoi contatti con esponenti di spicco di Ordine Nuovo in Veneto.
“Nel 1975 Mori venne repentinamente allontanato dal Sid”, ha detto, dal vice capo Gianadelio Maletti.
Maletti riferisce che le ragioni della sua decisione di tenerlo “lontano dalla sede di Roma” hanno a che vedere con il fatto che Mori “era sospettato di contatti con soggetti di destra eversiva e pertanto perso di forza per trasferimento”. Per Di Matteo l’allontanamento dalla sede di Roma era dovuto al fatto che dalle “indagini di Padova poi confluite in quelle sul Golpe Borghese Mori era stato in qualche modo coinvolto”.
Tre anni più tardi viene chiesto il trasferimento a Roma alla sezione anticrimine del Capitano, nonostante l’opposizione del Colonnello del Sismi Mario Parente. Mori viene trasferito nella capitale il 17 marzo 1978, il giorno dopo il sequestro Moro. Su Mori parlò anche al processo trattativa il col. Massimo Giraudo, che depositò i verbali di Mauro Venturi ex collega di Mori al Sid nei quali, sempre secondo Di Matteo, “venne fuori una attività di proselitismo di Mori per affiliazioni condivise in una sorta di lista riservata della P2 di Licio Gelli”. Aspetti sconvolgenti che mettono ulteriori ombre sulla figura dell’ex generale. Mario Mori, ha affermato il magistrato, “ha sempre tenuto un comportamento che è più assimilabile a quello di uno spregiudicato uomo dei servizi che a quello di un ufficiale di polizia giudiziaria che segue le regole del codice”. Accuse pesanti che Mori ha respinto dicendo di essere false.
“Alla mafia oggi conviene comprarsi lo Stato”
A 25-30 anni l’Italia è ancora ostaggio di quel passato. La concessione dei permessi premio ai boss irriducibili è un’ombra che fa paura. Parliamo della famosa questione dell’ergastolo ostativo e del 41bis. L’abbattimento del regime di carcere duro era uno “degli obiettivi della Cosa nostra stragista”, ha sottolineato Di Matteo. “E oggettivamente stiamo assistendo – ha aggiunto – allo smantellamento totale di quell’impianto complessivo di norme che era stato concepito sotto la spinta ideativa e organizzativa di Giovanni Falcone”.
Alfonso Sabella è netto: “In questo Paese, la nostra economia legale, soprattutto dopo il Covid, soffre una grande carenza di liquidità che può essere messa in campo dai mafiosi”. Una trattativa tra coppole e cravatte che non finisce mai come una spirale infinita. “Io distinguo le mafie in tre stagioni”, ha aggiunto Sabella. “Una prima mafia che conviveva con lo Stato, una seconda che con l’avvento dei corleonesi lo sfidava, una terza che dopo le stragi con lo Stato ha fatto un patto e ci ha trattato”. Oggi, a detta di Sabella, c’è “un’ultima mafia che ha capito che probabilmente è più comodo per essa comprarsi lo Stato. E oggi ha i soldi per farlo”.