La vicenda che ha coinvolto, tra gli altri, Mario Mantovani, ex vicepresidente della Regione Lombardia, arrestato nel 2015, e a processo per corruzione, concussione e turbativa d’asta, è molto triste. Perché, semplicemente, in questa storia c’è una giustizia che, evidentemente, non funziona.
di Antonio Del Furbo
Quando uno Stato si permette di mettere le mani “addosso” a una persona negandogli la libertà dovrebbe, quantomeno, essere sicuro e consapevole di quello che sta facendo. Prima che dei giudici buttino in pasto al popolo l’anima di presunti colpevoli è bene che quei giudici siano responsabili dei loro atti e, almeno, siano consapevoli che un giorno possano rispondere dei loro errori. Ma in Italia, purtroppo, un giudice è immune da tutto.
Quanti sono finiti davanti al popolo (lo stesso che ha scelto Barabba) per essere sottoposti a giudizi per reati mai commessi? Troppi, tanti. E in tanti hanno pagato anche con la morte la loro vergogna.
Mario Mantovani ieri ha parlato davanti ai giudici della Quarta sezione rispondendo al pm Giovanni Polizzi. La prima dichiarazione sull’inchiesta della Procura di Monza che ha coinvolto oltre al sindaco di Seregno anche Mantovani:
“Il mio nome è stato ingiustamente accostato alla ‘ndrangheta. Ma il 26 marzo il gip di Monza ha disposto la mia archiviazione per notizia di reato infondata”.
Dunque, l’ex senatore Pdl ha parlato di “ben 30 errori” commessi nell’inchiesta milanese a proposito delle sue cariche societarie e del conflitto di interessi che gli viene contestato.
“Vengo descritto – dice – come uno che viola la legge con indifferenza. Invece sono sempre stato rispettoso della legge“.
Della vicenda ci siamo occupati a gennaio scorso nell’articolo “Seregno: quella triste storia di arresti per ‘ndrangheta. Che non c’è”. II 26 settembre 2017 i giudici parlarono di traffico internazionale di droga, di corruzione, di personaggi lombardi legati a doppio filo con la peggiore Calabria. Su tutti i giornali si parlò di un collegamento molto marcato tra Seregno e la ‘ndrangheta. Agli arresti finì, tra gli altri, l’allora sindaco di Forza Italia, Edoardo Mazza con l’accusa di corruzione per aver favorito gli affari di un noto costruttore ritenuto legato alle cosche, interessato in particolare alla costruzione di un centro commerciale, in cambio di voti. Due le colonne dell’inchiesta: una criminale, di droga ed estorsioni e una tutta politica a cui si arrivò seguendo la prima. Inchiesta, quest’ultima, che culminò con l’arresto dell’ex vicepresidente della Regione Lombardia di Forza Italia, Mario Mantovani appunto, che, secondo l’ordinanza, sarebbe stato “all’epoca il politico di riferimento dell’imprenditore-amico Antonio Lugarà”.
Oggi accade, però, che il capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, Alessandra Dolci, che insieme alla Procura di Monza coordina l’inchiesta relativa a mafia e politica, dice che nei confronti di Antonino Lugarà non sono stati raccolti “elementi sufficienti per una contestazione di reati di nostra competenza”. Sono emerse, in sostanza, “ipotesi di reato commesse a Seregno”. Insomma, nessun legame con le mafie.
Eppure quando l’inchiesta partì i nomi dei presunti copevoli sono finiti su tutti i maggiori quotidiani nazionali: Corriere, il Fatto, la Stampa, Repubblica. Oggi nemmeno un rigo sul fatto che Mantovani non è mai stato un ‘ndraghetista, in quanto la Procura di Monza lo ha acclarato mediante l’archiviazione delle accuse sul cosiddetto caso Seregno.
In questo periodo, conclude Mantovani in un’intervista a Lanostraverità, “ciò che mi ha aiutato è stato il sostegno della mia famiglia e le tante lettere, oltre 20 mila, che ho ricevuto mentre mi trovavo in carcere – 42 giorni a San Vittore e altri 141 ai domiciliari – per l’altro processo di Milano. Lettere, telegrammi e biglietti: un affetto che non mi aspettavo. Ora attendo di avere giustizia anche su quest’altra vicenda”.
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