Luciano D'Alfonso
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Il processo si trascinava dal 2016 da quando, l’allora governatore della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, citò in giudizio la giornalista Adelina Mandara. L’attuale senatore del Partito democratico, lamentò una particolare attenzione della professionista nei suoi confronti.

D’Alfonso aveva chiesto 150mila euro, per gli articoli e i commenti pubblicati sul blog Maperò, in larga parte riguardanti i casi Maltauro e La City, oltre agli incarichi in Regione.

Luciano D’Alfonso riteneva “che la stessa, tanto in occasione e nella forma del diritto di cronaca quanto in occasione e nella forma di diritto di critica, equivalesse a libertà di dileggio e insulto, diceva e scriveva ogni giorno su di un suo blog denominato ‘Maperò’ tutto quello che le pareva, affermando cose false e offensive ovvero riferendo mezze verità ovvero ancora usando la tecnica del dire e non dire e non tralasciando occasione per attaccare giornalmente ed ossessivamente l’Amministrazione presieduta da esso attore; richiamando dunque una serie di articoli ritenuti lesivi della propria credibilità e dignità, conveniva in giudizio la Mandara perché fosse condannata al risarcimento di tutti i danni risentiti, quantificati nella misura di € 150.000,00″.

La difesa

Opposta l’analisi della giornalista che, costituitasi in giudizio, eccepiva che, “svolgendo l’attività professionale di giornalista da circa trent’anni, si era sempre occupata della vita politica regionale senza allineamenti e/o appiattimenti sull’operato e sulle condotte dei rappresentanti delle istituzioni e dei politici, quindi esercitando a pieno il diritto di critica, seppur anche con toni pungenti e non soltanto e sempre il diritto di cronaca; negando pertanto di aver mai pubblicato post che concretassero gli estremi della lesione della reputazione e dell’onore dell’attore, tanto meno con riferimento a quelli richiamati nell’atto introduttivo del giudizio, eccependo altresì il difetto di prova del lamentato danno risarcibile, concludeva per il rigetto della domanda.”

Il giudice

Nella premessa, il giudice del Tribunale di Pescara, Marco Bortone, riconosce che “la lesione del diritto alla salute e di ogni altro valore inerente alla persona costituzionalmente garantito costituisce un evento immanente ovvero interno al fatto illecito e ne comporta pertanto il relativo risarcimento, indipendentemente dai riflessi patrimoniali che da tale lesione conseguano, integranti voce di danno eventuale, autonoma ed aggiuntiva”.

La sentenza della Cassazione

A supporto arriva la sentenza della Cass. civ., sez. I, 15 gennaio 2005, n. 729, che ha ulteriormente precisato che “il risarcimento del danno non patrimoniale non richiede che la responsabilità dell’autore del fatto illecito sia stata accertata in un procedimento penale, in quanto l’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c. (Corte Cost., sentenza n. 233 del 2003) comporta che il riferimento al reato contenuto nell’art. 185 c.p., comprende tutte le fattispecie corrispondenti nella loro oggettività all’astratta previsione di una figura di reato; inoltre il danno non patrimoniale non può essere identificato soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati dal fatto illecito integrante reato, ma va inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.”.

Diritto di stampa

Il giudice, pur richiamando “il diritto di stampa, e cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti, sancito in linea di principio dall’art. 21 Cost.” si sofferma sul fatto che “La forma della critica non è civile quando non è improntata a leale chiarezza, quando cioè il giornalista ricorre al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni. In tali ipotesi l’esercizio del diritto di stampa può costituire illecito civile anche ove non costituisca reato”.

Dunque, il giudice “condanna la convenuta a pagare all’attore la somma di € 62.500,00, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza al saldo; condanna la convenuta a rifondere all’attore le spese del giudizio, che liquida in complessivi € 14.226,43, di cui € 796,43 per esborsi ed € 13.430,00 per compensi d’avvocato”.

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