I dati ISTAT, OIL e l’analisi cruda di una realtà che il governo preferisce ignorare. Aumentano i lavoratori a basso reddito, la disuguaglianza si allarga, e chi lavora spesso non ce la fa ad arrivare a fine mese.
Lavorare e restare poveri: il lato oscuro dell’occupazione in Italia che il governo Meloni non racconta. Il governo Meloni esulta: l’occupazione cresce, il tasso di disoccupazione è ai minimi storici, l’Italia torna a lavorare. Ma dietro il trionfalismo politico si cela una realtà ben diversa, documentata con precisione chirurgica dall’ISTAT, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e da chi ogni giorno fatica per arrivare alla fine del mese. Il lavoro, in Italia, non è più una garanzia di dignità, né di benessere. Non lo è per milioni di persone che pure si alzano ogni mattina, timbrano un cartellino, portano avanti famiglie. Lo è sempre meno per i giovani, per le donne, per chi ha contratti a termine o è autonomo senza tutele.
L’Italia è un Paese dove si lavora e si resta poveri. Dove la produttività ristagna, i salari reali calano, e lo Stato sembra incapace di contrastare un impoverimento di massa che scivola sotto la superficie delle statistiche occupazionali. Lavoro c’è – certo – ma spesso è mal pagato, precario, intermittente, incapace di sostenere un’esistenza dignitosa. E i numeri, oggi, non lasciano più spazio all’ambiguità.
I salari reali più bassi del G20
A certificare per prima questa distorsione è stata l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Un report pubblicato a marzo 2025 ha rivelato che i salari reali in Italia sono calati più che in qualsiasi altro Paese del G20. Nessun altro grande Paese ha registrato una simile perdita di potere d’acquisto per chi lavora. L’inflazione, l’assenza di adeguamenti salariali e il progressivo indebolimento del lavoro tutelato hanno fatto sì che, di fatto, gli stipendi italiani valgano oggi meno che quindici anni fa.
Secondo l’OIL, si tratta di un’anomalia strutturale: in Italia i salari crescono meno della produttività, e i lavoratori finiscono per pagare il prezzo delle inefficienze del sistema. Un meccanismo che alimenta la spirale della precarietà: chi guadagna poco spende meno, rallenta i consumi, riduce la mobilità sociale e costringe nuove generazioni a scegliere tra lavori sottopagati o emigrazione.
ISTAT: aumentano i lavoratori a rischio povertà
L’ultimo rapporto ISTAT su “Condizioni di vita e reddito delle famiglie”, pubblicato il 26 marzo, rappresenta una pietra tombale su qualsiasi narrazione ottimistica. Nel 2023 è aumentata la quota di occupati a rischio povertà, ossia persone che lavorano ma vivono in famiglie con un reddito netto inferiore alla soglia di povertà. La percentuale è salita dal 9,9% al 10,3%.
Colpisce il dato per genere: gli uomini sono più esposti (11,8%) rispetto alle donne (8,3%), anche se quest’ultime hanno più frequentemente lavori a basso reddito. Il motivo è da ricercare nella posizione familiare: le donne, spesso “seconde percettrici”, hanno un reddito aggiuntivo che non incide sull’intera soglia familiare, mentre gli uomini, più spesso “capifamiglia” o monoreddito, trascinano con sé l’intero nucleo nella soglia di rischio.
Giovani e famiglie monoparentali: l’Italia che affonda
Il rischio di povertà o esclusione sociale nel complesso sale al 23,1% (dal 22,8% del 2023), con un dato allarmante: il 15,9% delle persone sole under 35 vive in condizioni di povertà materiale o bassa intensità lavorativa. Tra i genitori soli, la situazione è ancora più drammatica: quasi un quinto (19,5%) è in difficoltà economica strutturale, il doppio rispetto alla media nazionale.
A livello territoriale, il Nord-Est resta l’area “migliore” con un 11,2% a rischio povertà, mentre il Mezzogiorno sprofonda al 39,2%, segnale inequivocabile di un divario che continua ad allargarsi.
Redditi che crescono (solo nominalmente)
Nel 2023, secondo l’ISTAT, il reddito medio familiare è salito del 4,2% in termini nominali, arrivando a 37.511 euro. Ma si tratta di una crescita illusoria: in termini reali, ovvero tenendo conto dell’inflazione, il reddito è calato dell’1,6%. L’effetto è stato più forte al Nord-Est (-4,6%) e al Centro (-2,7%), mentre nel Sud il calo è più contenuto (-0,6%), complice una base più bassa.
Dal 2007, la perdita di potere d’acquisto delle famiglie è clamorosa:
- -13,2% nel Centro,
- -11% nel Mezzogiorno,
- -7,3% nel Nord-Est,
- -4,4% nel Nord-Ovest.
E la mazzata è più dura per le famiglie che vivono di lavoro: -17,5% per i redditi da lavoro autonomo, -11% per quelli da lavoro dipendente. Solo le famiglie che vivono di pensioni e trasferimenti pubblici registrano un +5,5%.
La trappola del “lavoro a basso reddito”
Nel 2023, secondo l’ISTAT, il 21% dei lavoratori italiani è a basso reddito. Parliamo di chi, pur avendo lavorato almeno un mese, ha percepito un reddito netto inferiore al 60% della mediana nazionale. Un dato fermo da anni, ma ben lontano dai livelli pre-crisi del 2007 (quando era al 16,7%).
Questa condizione colpisce:
- il 26,6% delle donne, contro il 16,8% degli uomini;
- il 29,5% dei giovani sotto i 35 anni;
- il 35,2% degli stranieri, contro il 19,3% degli italiani.
Ma anche tra chi ha un lavoro “regolare”, il rischio è alto:
- 17,1% dei dipendenti,
- 28,9% degli autonomi,
- 46,6% dei contrattisti a termine (contro l’11,6% dei lavoratori a tempo indeterminato).
L’intensità lavorativa fa la differenza: tra chi lavora meno di 4 mesi, quasi 9 su 10 sono a basso reddito. Ma anche tra chi lavora più di 9 mesi, il 13,6% è sotto la soglia critica. In alcuni settori, la situazione è esplosiva: 44,5% nel comparto dei servizi alla persona, 21% nei servizi di mercato, 11% nell’industria.
La disuguaglianza cresce: l’Italia è più ingiusta
Tutto questo ha un impatto diretto sulla distribuzione della ricchezza. L’indice di Gini – che misura la disuguaglianza – è salito a 0,323 nel 2023 (era 0,315 nel 2022). Più alto nel Sud e nelle Isole (0,339), più basso al Nord-Est (0,276), l’unica area dove si registra un lieve miglioramento.
Nel 2023, le famiglie più ricche hanno percepito 5,5 volte il reddito delle più povere. Un peggioramento netto rispetto al 2022 (5,3 volte), che segnala come la ricchezza continui a concentrarsi in alto, mentre in basso si allarga la platea di chi lavora senza riuscire a vivere dignitosamente.
Landini: “Dati che gridano vendetta”
Le reazioni sindacali sono dure. Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, ha parlato di “dati che gridano vendetta”, accusando il governo Meloni di non voler vedere la realtà: “Non si può continuare a raccontare un Paese che non esiste. Questa condizione è il risultato di precarietà diffusa e di politiche che non vanno a prendere i soldi dove ci sono”.
Anche Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, ha definito il quadro “una vergogna”: “Un quarto della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è un dato indegno di un Paese civile. E il fatto che i numeri siano in peggioramento testimonia il fallimento delle politiche sociali del governo”.
Il racconto distorto del lavoro
Nel discorso pubblico, però, prevale ancora il racconto positivo. Il governo insiste nel rivendicare i “numeri record” dell’occupazione. Ma non basta avere un lavoro per stare bene, se quel lavoro è sottopagato, se non garantisce un futuro, se si lavora a intermittenza, senza diritti, senza tutele.
Le statistiche sul PIL, sull’occupazione o sulla disoccupazione non raccontano la qualità della vita reale. Non dicono nulla su quanto costa un affitto, quanto vale uno stipendio da part-time in un call center, quanto è fragile la condizione di una madre single con contratto a tempo determinato. L’Italia ha bisogno di una politica del lavoro che guardi alla dignità, non solo ai numeri.
L’Italia dei numeri e quella dei volti
C’è un’Italia che appare nelle tabelle ISTAT e una che resta invisibile. C’è un’Italia che lavora nei weekend, che fa due lavori, che si sposta da una provincia all’altra per 900 euro al mese. C’è chi ha paura di ammalarsi perché non può permettersi di perdere giorni, chi rinuncia alle ferie per non perdere il posto, chi vive con l’ansia del contratto che scade. Questa Italia non ha voce nei discorsi ufficiali, ma è quella vera.
Il lavoro povero non è un incidente. È il prodotto di scelte politiche, economiche e culturali. E finché continueremo a parlare solo di “crescita dell’occupazione” senza affrontare la qualità del lavoro, l’Italia resterà un Paese dove si lavora… ma si resta poveri.