Gli albanesi di seconda generazione sono cresciuti all’ombra delle storiche famiglie criminali che si sono divise la capitale. Parlano il dialetto tronco della città, anche se ne storpiano la cadenza con un accento slavo.
La malavita albanese. “Feroci, armati fino ai denti. Perché non hanno mai smesso di avere fame. Quella che ha solo chi, come loro, ha cominciato a salire i gradini che portano al cielo da papponi di battone di strada. Per poi passare a spingere marijuana nei quartieri e prestare soldi a strozzo. Il tempo li ha ripagati”.
Così racconta Repubblica in un’inchiesta sui clan albanesi che controllano la capitale. Oggi sono gli interlocutori privilegiati delle famiglie di ‘ndrangheta a Roma, l’interfaccia di rispetto della “aristocrazia criminale del Paese”, come dice l’ultimo capo della mala albanese a Roma. Non rispettano nessuna regola, ma conoscono quella fondamentale, mandata a memoria nella casa madre in cui sono cresciuti, il clan Senese: chi fa il prezzo della droga a Roma governa il mercato. E chi governa il mercato comanda. Loro ci sono riusciti.
Hanno rapporti con il “Cartello del Golfo” in Colombia, grazie al patto con militari marocchini che facilitano i canali di approvvigionamento di hashish, grazie a qualche buon broker in Ecuador. “Quelli so’ brutti forte, compa'” diceva Massimo Carminati nel 2013 in uno dei suoi tanti colloqui intercettati nell’inchiesta Mafia capitale. Quelli “sono figli di albanesi che hanno lavorato qua e quindi conoscono bene la lingua, conoscono bene il territorio. E poi rispetto alla malavita romana sono cattivi, cioè non si inculano nessuno”.
Arben, il primo re
Il lavoro della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Roma ha evidenziato tre nomi ricorrenti: Arben Zogu, Dorian Petoku ed Elvis Demce.
Arben lo chiamano “Riccardino” e ha già messo insieme una fortuna con droga e slot-machine. Ha persino sviluppato una certa abilità diplomatica nell’allacciare rapporti di peso con famiglie criminali di rango. Ha conosciuto il calabrese Rocco Bellocco, del clan di Rosarno.
È partito da Acilia, Arben. È riuscito a mettere su il suo discreto giro con l’aiuto dei fratelli Guarnera e di altri malacarne albanesi, riproponendo format e routine del gruppo camorristico che fino a qualche tempo prima faceva capo a Mario Iovine, del clan dei Casalesi. Arben fa affari con tutti. Dai Fasciani ai Senese, da Carminati alla ‘ndrangheta. “I calabresi sono i numeri uno – spiegava durante un colloquio in carcere – mi invitano tutte le sere a cena”.
E in quel 2013 – annota chi indaga su di lui – la sua banda può “contare sulle datate relazioni con soggetti appartenenti alla Banda della Magliana, quali i noti Luciano Crialesi e Renato Santachiara”. Soprattutto, la banda ha “stabilito rapporti di coabitazione con esponenti del clan Fasciani di Ostia, allo scopo di operare indisturbata nel comprensorio di Acilia, spesso in maniera violenta e con vincolo di esclusività, nel remunerativo settore delle ‘macchinette mangiasoldi’, che vengono imposte agli esercizi commerciali abilitati ed autorizzati dall’Anms”.
Nel 2013 il Ros dei carabinieri segue e ascolta Massimo Carminati. E così che lo fotografa in un abbraccio con Arben Zogu, entrato nel frattempo a pieno diritto al vertice della “batteria di Ponte Milvio”, quella stessa banda guidata dallo storico capo ultras degli “Irriducibili” della Lazio che verrà ucciso nell’agosto del 2019 al Parco degli Acquedotti: Fabrizio “Diabolik” Piscitelli. Anche la Guardia di Finanza si accorge di Arben.
È il 2015 e il tipo si è fatto grosso, come annota in un’informativa del luglio il Comando provinciale: “È stata registrata la repentina e significativa ascesa dello stesso Zogu in seno alla malavita romana. Lo stesso, infatti, è riuscito a relazionarsi, in condizioni di reciprocità, con boss del valore criminale di Massimo Carminati nonché ad ottenere ampio e riconosciuto rispetto nei contesti criminali più violenti della capitale, anche grazie alla nota capacità di imporsi, in maniera efficace e competitiva, sulle più redditizie piazze di spaccio”. Arben il primo Re di una nuova gens criminale.
L’interregno di Dorian
Nel 2015, per Arben si aprono le porte del carcere, ma Elvis Demce, che dovrebbe succedergli è dietro le sbarre anche lui, perché accusato dell’omicidio di Federico Di Meo, fruttivendolo trentenne ucciso a colpi d’arma da fuoco a Velletri nel 2013. Elvis sarà assolto in appello. Tocca dunque a Dorian Petoku. Il ragazzo è nato nel 1988 in Albania, a Lexhe, una città di 113mila anime dove comanda chi, alternativamente, o insieme, traffica in armi, esseri umani e droga, anche grazie ai legami con la politica. Il salto da Lexhe a Ponte Milvio, Roma, non sembra turbare Dorian, che occupa rapidamente il vuoto lasciato da Arben, il primo Re.
Nel 2018, sui social ama immortalarsi tra mazzette di banconote ed armi. Un anno prima, l’indagine “Grande Raccordo Criminale”, documenta come faccia affari con Fabrizio “Diabolik” Piscitelli e il suo socio Fabrizio Fabietti. Anche se poi l’immagine che fotografa il rispetto guadagnato dagli albanesi negli equilibri criminali della città è quella immortalata da un pranzo del 13 dicembre del 2017, al ristorante “L’Oliveto” di Grottaferrata.
Quel giorno, seduti intorno a un tavolo, ci sono quattro uomini di peso. C’è un infiltrato, che si fa chiamare “il francese”, e le cui gesta sono narrate nell’operazione “Brasile low cost”. Al suo fianco, siede Salvatore Casamonica, classe 1976, personaggio di grande caratura criminale e capobastone del clan che controlla Roma Est. Di fronte a lui, mangia e discute Fabrizio Piscitelli, Diabolik.
E poi c’è lui. Dorian. Dorian Petoku. Non è un pranzo tra amici. Casamonica, Piscitelli e gli albanesi stanno infatti sugellando una pax mafiosa che dovrà mettere fine al conflitto tra le famiglie Esposito e Spada e consentire di tornare a far fiorire il traffico di droga sul litorale laziale. Un nuovo equilibrio in cui gli albanesi guadagnano appunto un posto a tavola. La fortuna di Dorian è tuttavia breve. Lo arrestano nel 2019 in Albania. E dunque, tocca finalmente a Elvis Demce, che, nel frattempo, ha risolto i suoi problemi con la giustizia.
Elvis “il Dio”
Elvis se l’è vista brutta. Ha rischiato di trascorrere la vita in carcere. Ma ora, a 36 anni quanti ne ha nel 2020, è libero, e ha tutto: fame, carisma, cattiveria, capacità logistiche e contatti giusti. Esce dal carcere il 19 aprile, in piena pandemia e lockdown. Con una radicata convinzione: “Io sono Dio”. Lo scrive sui social, utilizzando i suoi nickname, “Spartaco” o “Perseo”, a cui associa un forte significato simbolico. In sua assenza, le piazze di spaccio, sono state prese da Ermal Arapaj, albanese come lui e capo di un’altra organizzazione di tutto rispetto.
Ma adesso che è uscito di galera, il padrone di casa reclama ciò che considera suo. “È uscito l’Isis”, dice Elvis paragonandosi al califfato nero e annunciando guerra. Già, è intenzionato a riprendersi “immediatamente il suo circuito relazione criminale per riprendere il controllo e il predominio nelle piazze di spaccio della Capitale e della Provincia (Velletri e Acilia)”, scrivono i magistrati.
Elvis prova a eliminare il rivale Arapaj consegnandolo alle cure di un commando di quattro killer dalle parti di Lanuvio. Ha intenzione di assassinare due magistrati romani che gli avevano messo i bastoni tra le ruote, anche a costo di ucciderli appena usciti dal tribunale di piazzale Clodio. E ordina di scoprire dove abitino i poliziotti che hanno avuto a che fare con i suoi uomini.
Elvis ha contatti con la Colombia, il Marocco e l’Ecuador. Ed è armato fino ai denti. Lavora con la ‘ndrangheta, interloquisce con la cupola dei militari marocchini e con “gli eredi di Pablo, sono quelli del cartello di Medelin che controllano la guerriglia nell’Amazzonia”, dice.
Lui vive nella fascinazione di un “mito” come Raffaele Cutolo, che celebra nel giorno della sua scomparsa: “È morto ‘sto grande uomo. Dal 79 carcerato”, scrive ricordando il rifiuto a collaborare del boss di camorra: “Lui rispose sono abituato tra sbarre e cancelli a vedere la mia famiglia e va bene così, mi da più affetto morire tra sbarre e cancelli con dignità che tra lusso e infamità”.
Con Elvis Roma è alluvionata da quintali di cocaina e fumo. Che si trasformano in bancali di soldi. Ora ha bisogno di sangue. Cerca inutilmente di uccidere Arapaj l’usurpatore. Ma non gliene lasciano il tempo. Viene arrestato. E, pochi mesi dopo, l’Europol riesce a mettere le mani su un server dedicato battezzato “Sky Ecc” che contiene le conversazioni criptate di 170 criminali convinti di poter parlare liberamente. Ci sono anche quelle di Elvis e dei suoi tagliagola. Ci sono le foto delle vittime del clan portate nella boscaglia con una pistola puntata alla tempia, in attesa di conoscere l’ultima parola di Elvis e dunque il loro destino di vita o di morte.
Droga e recupero crediti
Il server sequestrato da Europol è un formidabile scrigno in grado di aprire uno squarcio definitivo sui cinque anni che hanno consegnato Roma ai suoi nuovi “padroni”. Dopo gli affari con le slot machine di Arben Zogu, interrotti nel 2015, gli albanesi sono tornati a business più classici. A cominciare dalla riscossione dei crediti, che è sempre stata una tradizione. Non è un caso se il nome di Arben Zogu venga messo in relazione con quello di alcuni esattori coinvolti nella vicenda in cui era stata arrestata l’ex moglie dell’ex calciatore Daniele De Rossi, Tamara Pisnoli, coinvolta nel sequestro di un imprenditore. Anche il successore di Arben, Dorian Petoku, ha familiarità con il recupero crediti. Lo documentano gli atti dell’inchiesta “Grande Raccordo Criminale” sull’omicidio di Diabolik.
Il 6 maggio del 2018 Piscitelli e il suo braccio destro Fabrizio Fabietti, insieme a Dorian Petoku “con il supporto di Leandro Bennato e Ettore Abramo”, e con l’aiuto del pugile Kevin di Napoli, di Andrea Maatoug e di Aniello Marotta massacrano Anxhelos Mirashi, detto “Angioletto”, altro albanese noto come trafficante di droga. Non aveva intenzione di restituire 103mila euro presi a strozzo e, per giunta, aveva aperto una sua attività. Un affronto. I finanzieri ascoltano Fabietti che dice:
“Gli ho preparato una macchina. Li massacriamo tutti… sono quattro persone… so’ tutti brutti brutti… questi mo li sterminano tutti… con la scossa elettrica sdraiano la gente”
Anche Elvis Demce, il “Dio”, non molla il recupero crediti. È a lui, infatti, che il produttore cinematografico Daniele Muscariello si rivolge quando deve rientrare di una discreta somma: 900mila euro. E questo perché prima di finire in carcere insieme ad altre 9 persone, tra cui un carabiniere e un poliziotto in odore di camorra, Muscariello riciclava soldi sfruttando le sue società. “Un film può costare 200mila ma può costare pure 50 milioni di euro”, diceva. Salvo poi bussare alla porta di Elvis per ottenere una montagna di grano da “una società di Velletri che aveva ottenuto, grazie ai napoletani, un sub-appalto per opere collegate alla ricostruzione a seguito del terremoto dell’Aquila”.
I veri affari, tuttavia, gli albanesi li fanno con la droga. Cominciano sfruttando il rapporto con i campani. Ma pretendono da loro qualcosa di più del semplice controllo delle piazze di spaccio. Non hanno alcuna intenzione di essere anelli di una catena. Vogliono gestire l’intero mercato, diventandone i fornitori. E dunque non basta garantire l’acquisto e il trasporto di grandi quantità di stupefacenti, arrivando così a pagare la cocaina 36 o 34mila euro al chilo. Si può fare di più e di meglio. Ma per questo bisogna avere contatti internazionali.
Inizialmente, ci prova Dorian Petoku, che insieme a Salvatore Casamonica, al montenegrino Tomislav Pavlovic e ad altri due italiani cerca di far arrivare cocaina purissima dal Brasile, dalla Repubblica Domenicana e dalla Bolivia. Grazie alla disponibilità di aerei, armi e dispositivi per eludere i controlli, come documenta l’inchiesta che blocca e interrompe un carico di 7 tonnellate di cocaina con cui inondare le piazze della Capitale. Elvis, invece, fa di meglio e riesce a comprare cocaina anche a 30mila euro al chilo. Sfruttando il suo talento per la logistica. Ai fornitori, infatti, si propone non solo come cliente, ma come interlocutore capace di gestire trasporti, magazzini e staffette. La droga, che inizialmente veniva acquistata e prelevata in Campania, comincia così ad arrivare direttamente a Roma.
Le chat segrete di Elvis raccontano infatti la sua dimensione e caratura internazionale: i “kiwi” arrivati dall’Ecuador, gli accordi con i militari marocchini, gli affari con il “Cartello del Golfo” in Colombia e i container stipati di droga che approdano al porto di Gioia Tauro. Il 20 gennaio 2021 un sms viene postato nella chat dell’albanese. È la comunicazione dal contatto in Marocco, “hermano”: “Ti spiego un poco per darti conto del livello di questa operazione – scrive l’uomo – Questa operazione è controllata e autorizzata dalla cupola militare. Già il direttore del porto e il transitario sono stati chiamati per ricevere ordini sopra il trattamento dei containers che vanno a Gioia Tauro (Non verranno controllati)”. I carichi arrivano in Calabria.
Fucili per i pm, bazooka per gli imprenditori
Grazie ai suoi contatti Elvis Demce si riprende le piazze di spaccio tra il Prenestino, il litorale Pontino, i Castelli Romani e Velletri. Ma è consapevole che la sua riconquista potrebbe scatenare una guerra. E “per fare la guerra e vincere – dice a un amico – ci si prepara in tempo de pace. Che in tempo de guerra è già tardi”. Servono dunque “i ferri”, le armi. Per provarli, scherzano gli indagati, “se portamo qualcuno che ce sta sul cazzo e lo usamo come bersaglio”.
Il boss ricorda i vecchi tempi: “Non hai visto l’arsenale che ci hanno sequestrato 8 anni fa. Avevo davvero più armi io che una caserma”.
Le intercettazioni dell’estate del 2020 rivelano che è proprio ai calabresi che il gruppo si rivolge: “Sto aspetta’ che me portano dalla Calabria una borsa piena, me so’ comprato 20mila euro de armi oltre queste che già c’ho, te dico c’ho più armi io che un deposito militare”, dice Elvis.
Un fucile “AK47”, una mitraglietta “Uzi M12 Scorpion”, una pistola “glok17”, una calibro 375 a tamburo, la più classica Beretta, una parabellum, altre armi calibro 38 e qualche bomba a mano. È lungo l’elenco dell’arsenale che Elvis intende acquistare. Perché le “armi servono sempre, non so’ mai troppe, perché so’ usa e getta”. “So’ la malattia mia – dice – come le donne”. C’è “anche un bazooka da utilizzare contro la casa dei Luciani”, imprenditori finiti nel mirino dell’albanese. “Ma quando je damo du’ botte a sti indegni?”, chiede Elvis in chat a uno dei suoi luogotenenti, Francesco “Bigis” Bastianelli, postando in chat la foto delle vittime, imprenditori con interessi in società edili, di ponteggi e nella società calcistica Cavese.
È il gennaio del 2021: “Fra sto a trova’ nome cognome… così gli prendiamo famiglia giù e lo facciamo scendere”, dice il capo. L’obiettivo è chiaro: “Gli dobbiamo levare almeno 500mila euro a ste du’ spie”. Il mese dopo “Elvis Demce informa Bastianelli del carico di armi che ha effettuato dai fornitori calabresi e aggiunge che domani arriveranno e saranno a disposizione dell’associazione”. Nelle foto che i criminali inviano ci sono M16, Ak47 e pistole. Tra le armi c’è anche “un bazooka da utilizzare contro la casa dei Luciani”. Il capo dà luce verde all’acquisto. E il socio risponde: “Domani me portano ak e altri pure bazooka”.
Ad Elvis le armi servono anche per uccidere i poliziotti che indagano sul suo conto. Nel 2020, il boss, dopo aver ricevuto da uno scagnozzo il nome dei poliziotti e i profili social, aveva sentenziato: “Bisogna ammazzarlo non abbiamo altra scelta, a rovinarlo proprio… Una pallottola alla testa, a rovinarlo proprio. Soltanto prepara le moto.. a parlare con i ragazzi, le moto e pronti in azione a rovinare. Perché non c’è altra scelta. Chiunque l’abbia fatto bisogna sparargli, rovinarli proprio”, dice.
Le conversazioni
Non si ferma neanche quando Alessandro Corvesi, ex giocatore della Primavera della Lazio ricordato anche per la relazione con la showgirl Antonella Mosetti e per essere stato fermato nel febbraio 2021 con 27 chili di cocaina e oltre 200mila euro in contanti, decide di dichiarare guerra ai pm che gli hanno messo i bastoni tra le ruote, Francesco e Giuseppe Cascini. Poco importa se i pm siano scortati, protetti e abbiano l’auto blindata. Basta procurarsi un fucile da guerra, perché “quando me parte a ciavatta co questo vado a sparare a Cascini fori a pizzale Clodio”.
Il 24 febbraio, Corvesi è deciso: “lo voglio uccidere”. E cerca di capire come fare: “Hanno mai ucciso un pm? Loro sono scortati? Sono protetti?”. Ed Elvis: “Certo che so’ protetti, scorta e macchina blindata”. Le parole del capo confondono Corvesi. Da un lato è disposto a pagare “un’ingente somma di denaro”, pur di sapere dove abita il magistrato.
Dall’altro dice “non se po’ uccidere”. Elvis ha la soluzione: “Queste tipo Nency ce potrebbero da na mano – dice – A questi per faje più male che sparaje, faje qualche video o avè qualche cosa per ricattarli e tenerli per le palle. Sarebbe il top”. Il piano B è chiaro: scattare foto o video compromettenti per ricattare i pm.
Ma l’idea non convince gli interlocutori. Elvis parla della faccenda anche con un altro criminale, Massimiliano Rasori. “Le conversazioni fanno trasparire come il capo dell’organizzazione non abbia abbandonato il proposito omicidiario nei riguardi del magistrato, anzi evidenziano come egli si sia procurato già delle armi da guerra potenzialmente idonee a perforare le blindature delle auto di scorta dei magistrati”.
Mafia romana, gli eredi di Escobar, il Marocco
Gli antichi rapporti di Arben Zogu con il clan Fasciani o con le consorterie campane, vengono sostituiti da Dorian Petoku con nuovi legami stretti con il clan di Primavalle di Gambacurta, la batteria di Ponte Milvio di Diabolik e i Casamonica. Ma è con Elvis Demce che il sistema di relazioni criminali degli albanesi si allarga oltre i confini della Capitale. Il rapporto con i calabresi è forte. Ed è a loro che Elvis vorrebbe rivolgersi quando dichiara guerra a Ermal Arapaj:
“A fra’ stamo progettando pure un’altra cosa. Se non lo trovamo in tempi brevi me sto fa’ porta’ il tritolo da Calabria. Je famo zompa’ casa e macchine e tutto”
Ma non solo di armi si discute con i calabresi. Con loro si fanno ottimi affari di droga. Vendono cocaina a 30 mila euro al chilo e gli albanesi ne comprano almeno 17 chili, “fornendo loro un alloggio anonimo e del tutto sicuro nonché veicoli per i loro spostamenti”, scrivono i carabinieri del Nucleo investigativo. “Con sti ragazzi fammi fare bella figura”, si assicura Elvis parlando ai suoi.
La rete
Gli amici che contano, quelli che possono garantire di aver saldamente in mano il mercato della droga a Roma, non sono Italia. C’è “Hermano”, che può dialogare per conto di Elvis con la cupola dei militari marocchini. Ma soprattutto c’è “Paesano”, in Colombia, nel paese dove l’albanese vorrebbe andare a vivere. Conosce anche un tipo, si chiama Miro Niemeier Risvanovic, detto ‘Il russo”. Stava in cella con me, lui mi aspettava per inserirmi in Colombia con il Golfo”, dice Elvis a un socio. Ma “Il russo” è stato trovato morto a Pereira, città colombiana del Triangolo del caffè, nel 2018. Restano altri contatti. Al telefono parlano di due fratelli: “Uno vive in Colombia e l’altro in Olanda. Lavorano tantissimo anche con Londra”.
I carabinieri annotano “frequenti collegamenti anche al di fuori dei confini nazionali in Europa (Spagna, Francia, Germania e Olanda) e in paesi del Nord America (Colombia)”. “Paesano”, o “cugino”, sembra garantire il rapporto più solido: “Vive in Colombia e propone di girare il mondo (Dubai, Colombia e Brasile) con documenti falsi, come faceva in passato con “Ricky” (soprannome di Zogu Arben)”, scrivono i carabinieri del Nucleo Investigativo. La cocaina arriva in Italia a prezzi estremamente competitivi. Ed è purissima. Lo dicono anche i tossicodipendenti pagati per provarla.
Da Ponte Milvio a Velletri passando per San Basilio
Negli anni, gli albanesi conquistano dunque una fetta del mercato della droga di Roma. Che sugellano imponendo anche la loro presenza fisica. Sono per questo apparsi anche a Ponte Milvio, luogo simbolo per la criminalità romana di un certo rango.
Nel 2019, una testimonianza rimasta inascoltata di una donna, restituisce nel modo più nitido quanto sta accadendo. La testimone è terrorizzata e parla con gli inquirenti dopo un’aggressione “da parte di persone non note”, annota il verbale. Ricostruisce quanto accade in due locali di ponte Milvio, dove ragazze immagine si prostituiscono e la cocaina viene portata ai tavoli insieme alle bottiglie di champagne.
Lì vengono venduti anche cellulari criptati. Della banda che controlla il locale – spiega ancora la donna – farebbero parte anche albanesi, Casamonica e alcune guardie giurate. E poi c’è un locale, il “Coco Loco”, dove lavorava anche Adrian Pascu, il pizzaiolo romeno ucciso nel dicembre scorso con un paio di proiettili al ventre, proprio mentre saliva le scale di casa sua a Primavalle. È un uomo vicino a Petoku. Una settimana prima di morire, il 27 novembre, la polizia lo aveva identificato insieme a un esponente della famiglia Casamonica.
La presenza degli albanesi a Ponte Milvio è già stata registrata in altre ordinanze. Quel locale, era la base di “un agguerrito gruppo criminale facente capo a Fabrizio Piscitelli, inteso ‘Diabolik’, e comprendente anche soggetti provenienti da paesi dell’Est Europa”, si legge negli atti.
Dei metodi del trentaseienne albanese parlano gli investigatori, definendoli “efferati e di inaudita violenza, come la sparatoria del 9 luglio 2020 a seguito del fallito agguato all’Arapaj”, quando poi è stata bruciata la casa del rivale nella speranza che l’azione fosse così dimostrativa da “finire al telegiornale”.
“Prima ti faccio a pezzi e poi ti butto pezzo pezzo dal balcone… non ci sta un cazzo di discorsi quando parlo io… quando parlo io è Cassazione”
Nelle mani degli albanesi: calciatori, cantanti, produttori
Le carte giudiziarie sono fitte di riferimenti di nomi albanesi legati a vario titolo alla criminalità dell’Est: dal pugile Orial Kolaj, fino ai pregiudicati Yuri Sheleve o Adrian Coman. Recentemente però anche molti italiani si sono messi a disposizione. Molti e insospettabili.
Tra loro – lo abbiamo visto – c’è Alessandro Corvesi, condannato 6 anni e 10 mesi. Ex centrocampista della Primavera della Lazio, fino al 2020 risultava tra i tesserati della Campus Eur, una squadra che milita nel campionato di Eccellenza. Quando viene fermato, gli trovano in casa 25 panetti di cocaina e altri tre involucri, per un totale di 27 chili di polvere bianca. E poi circa 210 mila euro in contanti. Non è roba sua, ma di Elvis Demce l’albanese, che, dopo l’arresto, lo maledice e insulta al telefono per una buona mezz’ora.
Nel marzo scorso, salta fuori anche una cantante albanese che ha prestato i suoi servizi a bande che a vario titolo avevano a che fare con la criminalità albanese. Si chiama Elsa Lila e prima di allora il suo volto, con i capelli raccolti in una coda o sciolti in una lunga chioma, era stata immortalata mentre scendeva la scalinata dell’Ariston a Sanremo. Già, perché, da ragazzina prodigio della canzone albanese, era accaduto che nel 2003 debuttasse al festival di Sanremo per poi ritornare sullo stesso palco quattro anni dopo.
Elsa viene arrestata perché porta la “retta” e soprattutto custodisce la contabilità, il libro mastro, di una banda di narcos in cui sono annotati gli affari fatti con la vendita di cocaina, hashish e marijuana. Elsa è una sorta di “consigliera”. “Come puoi fare ad avere un amico all’interno dell’apparato statale? – diceva al telefono – Questa è la soluzione… lo so che non ti fidi ma un aggancio nello Stato serve… come in Albania… perché ti salva, qualsiasi sia il governo bisogna avere uno anche lì”. Le intercettazioni giocano un ruolo rilevante ed Elsa che pensa tuttavia di non essere ascoltata, ne è consapevole. “Se aprono questi fanno un carcere nuovo a Roma”.
Ma alla fine, appunto, i cellulari vengono “aperti”, e per Elsa e altri otto complici si aprono le porte di un carcere. Non “nuovo”, ma pure sempre carcere. Avevano una casa a Torrevecchia e un box ad Acilia per custodire la droga, macchine intestate ad altri e due bar in cui si davano appuntamento fisso per i loro summit: il “Vivas Caffè” e gli “Antichi Sapori di Acilia”. A capo della banda erano Fabrizio Capogna e Petrit Bardhi un pezzo da novanta.
Al telefono, nell’ottobre 2018, “Titi” parla con un uomo che non è convinto dell’idea di contattare Fabietti: “parlano male di quello”, dice l’interlocutore. E Titi risponde: “Chi parla male? gli spara in testa… credime… Fabietti è Fabietti… non può parlare male nessuno… leva cento pacchi al mese… te lo giuro sull’infamità”. “Te l’ho giuro sull’infamità”, una frase che ripetono molto gli albanesi. Calciatori e cantanti, dunque. Ma anche un produttore cinematografico.