Luigi Di Maio
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Il Movimento è ormai finito. La rivoluzione è “compiuta”. I sogni realizzati, le poltrone occupate. La parola d’ordine in questi ultimi anni, del resto, è stato: “accordo con chiunque pur di portare il vento del cambiamento”. Il vento provocato dalla corsa alla poltrona c’è stato, il cambiamento per nulla.

E, infatti, qualcuno se n’è accorto. Specie gli elettori, gli attivisti che hanno dato anima e cuore a un Movimento capace di riscrivere – quello sì – una nuova pagina della politica. Così 6mila attivisti hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle nel giro di soli quattro mesi. “E all’interno del partito è già prevista una guerra per la conquista della leadership dopo che la squadra pentastellata ha fallito su tutti i fronti e ha praticamente avallato tutte le leggi volute dalla Lega prima e dal Pd poi” scrive Gianluigi Paragone. “Delle sue battaglie storiche – aggiunge il giornalista – non si è vista nemmeno l’ombra, a parte un reddito di cittadinanza zoppo”.

In realtà al Movimento diventato partito interessa altro in questo momento: “la settimana decisiva sarà quella tra il 15 e il 22 giugno: entro allora si dovrebbe tenere una riunione dei vertici. La lotta interna si fa più serrata” racconta Emanuele Buzzi sul Corriere.

Da una parte c’è l’idea del comitato elettorale che dovrebbe traghettare il Movimento per un anno, fino alle porte del semestre bianco, dall’altra la corrente che vorrebbe un voto subito sul capo politico. “Anche sulla leadership la situazione è a dir poco confusa. Le notizie di un ‘interim’ di Beppe Grillo continuano a rimbalzare, nel frattempo però Vito Crimi prosegue la sua attività e i suoi incontri tessendo rapporti e progetti in teoria a medio lungo termine, comunque ben oltre una imminente staffetta in vista di un cambio di leadership. E la corsa al ruolo di capo politico si infittisce di nomi, con Paola Taverna che ha dato la sua disponibilità per un periodo, Chiara Appendino che rimane sullo sfondo del progetto abbozzato sei mesi fa e Stefano Buffagni pronto a scendere in campo per far sentire la voce dei Cinque Stelle del Nord”.

A completare il quadro, ovviamente, è Alessandro Di Battista, il cui seguito interno sta crescendo sempre di più.  

Che il M5s stia operando manovre di riposizionamento politico per continuare a gestire il potere è cosa certa. Lo stesso Michele Giarrusso – ex pentastellato, ora nel Gruppo misto – fornisce un’analisi sul Movimento impietosa raccontando fatti circostanziati. “Gli stessi che non hanno voluto Nino Di Matteo al Dap hanno poi nominato Dino Petralia”, afferma. Cioè “un uomo notoriamente vicino al Pd. Ma soprattutto è intimo di Palamara, al quale chiese aiuto per un incarico. E fa parte del contesto che colpì De Magistris”.

Alla domanda su cosa intenda per “contesto”, Giarrusso replica: “Parlo di un milieu che andava da Giorgio Napolitano a Nicola Mancino, al Csm, controllato da Palamara. E chi era in prima commissione disciplinare sul caso De Magistris? Petralia. Di tutti quelli che Bonafede poteva trovare per sostituire Basentini, va a trovare proprio costui. Sarà per questo che Matteo Renzi ha detto quello che ha detto in aula”. Il leader di Iv, durante la mozione di sfiducia in aula contro Bonafede “ha ringraziato Napolitano. Che c’entrava? Per me era un messaggio al ministro: se sei lì è grazie a questo “contesto”.

Giarrusso nel ‘contesto’ inserisce anche il fatto che Bonafede si sia scelto come nuovo capo di gabinetto “uno che era in via Arenula con Andrea Orlando, il Guardasigilli pd”. Insomma, Giarrusso conferma che aver ceduto tutto al Pd è segno di “attaccamento alla poltrona: questi getterebbero la madre da una torre, pur di conservarla”.

In effetti, come ho accennato, il riposizionamento del Movimento sta producendo un’altra vittima: Giuseppe Conte. “C’è un pezzo di Stato che rema contro le riforme e contro il governo” ha detto il premier. Una frecciata dopo i ritardi di alcuni Ministeri, le approssimazioni, le incertezze e le resistenze nei confronti del suo decreto legge su semplificazioni, appalti e infrastrutture. 

Conte appare sempre più solo: anche il Pd, riferendosi agli Stati generali dell’economia, ha detto che lo copre politicamente, ma — lamentano fonti di governo — “non ha saputo indicare un suggerimento concreto per risolvere la crisi che sta attraversando il Paese. Troppo poco per un alleato che si ritiene centrale”. Con il rischio, attaccano le opposizioni, che i prossimi Stati generali siano solo un’ulteriore passerella.

Altro che governo del cambiamento.

 

di Antonio Del Furbo

antonio.delfurbo@zonedombratv.it

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