Nel frattempo che il Governo si occupa di introdurre nel “Cura Italia” nuove misure ed emendamenti per tutelare la casta, la conta dei morti continua tra i medici. Ad oggi, sono 73 i medici morti sul campo di battaglia del coronavirus.
“Abbiamo finito le mascherine. Non ci fermiamo, ma stiamo molto attenti…”. Parlava così il dottor Roberto Stella quella volta al telefono con il collega Colombo. Erano gli inizi di marzo, Stella è poi morto l’11 a Como. È stato il primo medico italiano a morire.
In poco più di venti giorni ne sono morti altri 72 per coronavirus, più 23 infermieri, e oltre 10mila sono i contagiati tra gli operatori sanitari.
Perché nessuno dei medici pare abbia preso provvedimenti contro il virus? “Il medico lo sa benissimo, cos’è il rischio di contagio. Ma bisogna tornare al 20 febbraio, quando pensavamo che i casi in Italia fossero tre, allo Spallanzani” spiega a Repubblica Antonio Clavenna, epidemiologo all’Istituto Mario Negri di Milano. “Poi abbiamo scoperto il paziente cosiddetto 1 a Codogno, e lì capito che c’era un possibile collegamento con la Cina. Ma il virus già girava da tempo”. Non lo sapevamo, e in quel tempo “la cosa è stata sottovalutata, non c’erano linee guida e protocolli, né aree separate, dispositivi di protezione”, così Codogno e Alzano sono diventati due focolai. Dopo, quando si è saputo, mancavano tute e mascherine.
La “catena di errori di gestione”
L’Anaao-Assomed, il più importante sindacato dei medici, ha parlato di “catena di errori di gestione”, di “sconcertante mancanza di Dpi”. Dunque, potrebbe essere che la conta di decessi e casi positivi andrà avanti a lungo. Chi ne uscirà vivo, dovrà magari anche difendersi in una causa.
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Poi ci sono i medici di famiglia. Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine di Milano, dice che “siamo stati mandati allo sbaraglio, è chiaro. Dal 20 febbraio a oggi i più fortunati hanno ricevuto dall’Ats due flaconcini e una decina di mascherine chirurgiche. Non camici idrorepellenti, non visiere”. Adesso il Comune distribuisce le chirurgiche e qualche FFp2 e FFp3, “e un po’ di disinfettante. La nostra comunità ha pagato e paga un prezzo altissimo, la perdita ci accompagna ogni giorno”.
Valentina Rosti, 36 anni, medico di pronto soccorso al Papa Giovanni XXIII di Bergamo: “Abbiamo anche dei colleghi, ricoverati, e molti casi di infezione tra il personale”. Però continua a lavorare serena, affrontando “le ondate di arrivi”.
“Noi siamo abituati a lavorare sotto pressione, i pronto soccorso vivono nel sovraffollamento”, ma ad un certo punto Francesca Cortellaro, primario del pronto soccorso del San Carlo di Milano, si mette a piangere: “La cosa che ci fa più soffrire è che non abbiamo il tempo di elaborare il lutto con le famiglie. Abbiamo delle morti improvvise, uno che aveva 50 anni, e dobbiamo chiamare la moglie e i figli…”.