“Siamo rimasti impressionati da quel che abbiamo trovato. Abbiamo documenti e intercettazioni che riguardano dirigenti della Juventus. Il calcio è malato.”
È quanto ha dichiarato Federico Ruffo, il giornalista di Report che ha condotto un’inchiesta sull’ultras morto. Il direttore sportivo della Juventus Beppe Marotta, nell’ottobre del 2013, in occasione di Juve-Real Madrid, lascia 5 biglietti della sua riserva personale a Rocco Dominello, figlio del boss, che deve rivenderli.
Ecco lo scambio dei messaggi con un intermediario:
Intermediario: “Direttore buongiorno io parto domattina per Madrid per i 5 biglietti come possiamo fare, me li lascia lei da qualche parte oppure ci incontriamo veda lei”.
Marotta: “Ti informo io. Ciao”.
“Ti ho lasciato la busta al Principi, hotel. Alla reception c’è una ragazza bionda, li ho lasciati a lei”.
Intermediario: “Va bene, grazie mille”.
Marotta: “Ciao Fabio ci vediamo in sede.
Tutto ok per i biglietti?”.
Intermediario: “Sì direttore, grazie, speriamo bene”.
Marotta: “Ok, mi raccomando, massima riservatezza, B”.
Intermediario: “Come sempre nessuno lo sa’ “.
Poco tempo dopo, Marotta incontra in un bar Dominello e accetta di far sostenere un provino per le giovanili a un ragazzo. Si chiama Mario Bellocco, figlio di Umberto, esponente di spicco del clan di Rosarno.
Ad essere colpito dall’inchiesta è soprattutto l’autore:“Sono juventino, ma prima di tutto sono un giornalista. E da giornalista so che questa inchiesta non ha nulla a che fare col calcio: qui c’è un uomo che ha perso la vita, lasciando un figlio di 10 anni carico di rabbia e domande, ognuna delle quali merita una risposta. Qui si parla di soldi, ndrangheta, criminali da stadio e dirigenti dalla doppia morale. E’ uno dei lavori più importanti che abbia fatto in anni di carriera. portato avanti proprio per amore dello sport, quello vero, e del tifo, quello che non ha bisogno di fare soldi sulla passione degli altri.”
Ad affondare la lama è Gigi Moncalvo che su La Verità enuclea le motivazioni principali della rottura tra Beppe Marotta e Andrea Agnelli, proprio la gestione delle curve e l’inchiesta di Report. Moncalvo ricorda che quando gli avvocati riuscirono a far incontrare Agnelli e Francesco Calvo (l’ex manager Juve la cui moglie è poi diventata la compagna di Agnelli), il presidente della Juventus lo aggredì: “Lo vuoi capire che io non ti voglio più vedere. Tu devi scomparire, te lo ripeto: scomparire”.Marotta non fu sfiorato dal processo.
Scrive Moncalvo:
“Quella vicenda, dal punto di vista della giustizia sportiva, fu un altro degli episodi rivelatori per far capire a Marotta che era entrato nel cono d’ombra. Aveva ancora Yaki che lo proteggeva, ma capì benissimo che Andrea si era messo in testa brutte cose su di lui per colpa di quell’inchiesta. Quando si iniziano le indagini, in genere si parte da chi gestisce quella società. Invece Marotta, protetto da Elkann in persona, non venne neanche chiamato da Pecoraro, non venne sfiorato da quello scandalo, non fu deferito né processato.“
Durante la propria deposizione, Agnelli, rispondendo a una domanda del procuratore federale, disse:“Chiedete a Marotta”.
Marotta venne scelto quale amministratore delegato del club bianconero da John Elkann che era alla ricerca di un nome forte e professionale per sostituire il duo Blanc-Cobolli Gigli. Moncalvo precisa come la decisione di non rinnovare il contratto a Marotta ci sia proprio questa sua voglia di rompere col passato, gettando via tutto quello che non sia stato deciso da lui.Tra le tante incomprensioni tra la presidenza e Beppe Marotta c’è anche la gestione di alcune compravendite di calciatori. Ultima quella di Cristiano Ronaldo.
La sentenza:”La ‘ndrangheta controlla il tifo juventino”
“La ‘ndrangheta si è di fatto imposta nel tifo organizzato esercitando un vero e proprio controllo dei gruppi che supportano la Juventus”.
Non solo. Dietro al bagarinaggio, realizzato attraverso la cessione di pacchetti di biglietti a una tifoseria organizzata che esercita una notevole “forza intimidatoria” nei confronti della società, si nascondono i boss. A dimostrarlo anche il fatto dei tre ambasciatori saliti a Torino dalla Calabria: il compito era quello di risolvere la questione della gestione del ricco business in cui dovevano subentrare dei personaggi differenti per “fare accettare agli altri sodali i nuovi equilibri”.
A dirlo è la sentenza con cui il giudice Giacomo Marson, del tribunale di Torino, il 30 giugno ha messo fine (in primo grado) al processo Alto Piemonte, che in uno dei suoi numerosi rivoli ha preso in esame anche i rapporti fra boss e ultrà.