Si chiama Domenico Airoma ed è il procuratore aggiunto del tribunale di Napoli Nord. E, senza timore, ammette che il sistema non è sano come viene descritto. Nemmeno quello dei magistrati.
La tesi di Airoma è che i giudici con la loro “superiorità etica”, con il passare del tempo, avrebbero tolto il potere al popolo italiano e ai suoi eletti. Airoma lo scrive, nero su bianco, nelle cento pagine del volume “In vece del popolo italiano” . L’imputazione nasce dalla convinzione per cui “le correnti non sono un dato di natura, inscindibilmente connesse alla funzione del magistrato”.
Il vicepresidente del centro studi intestato a Rosario Livatino, magistrato cattolico ucciso dalla mafia nel 1990 all’età di 38 anni, punta il dito anche contro Magistratura democratica. Corrente responsabile, fin dalla sua nascita, di aver usato l’Associazione nazionale magistrati. In che modo? “Come la leva indispensabile per la compiuta realizzazione della strategia gramsciana nell’ambito della giurisdizione”. Il rapporto paritario con la politica dura sino a Tangentopoli, quando la magistratura assume un ruolo preponderante. “Non si tratta più di un giudice che fa politica (seppur sotto l’ombrello del richiamo alla costituzione materiale), ma di un giudice che ritiene di essere investito della missione di giudicare la politica stessa e non solo gli atti dei politici, se di rilievo penale”.
Il vero potere
“I magistrati erano stati fatti salire sul carro armato e da quel carro armato non intendevano scendere più”. Dunque, spiega Airoma, da quel punto la giurisdizione si è praticamente proclamata “supremo potere con connotazioni di superiorità etica”. Così, come nel caso Palamara, ormai le varie correnti si presentano sempre più come “compagnie di assicurazione e di sostegno nella scalata ad incarichi di vertice”.
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Insomma per il giudice l’unica e vera questione morale della magistratura è che essa rappresenta progressivamente “il vero detentore del potere nell’epoca del politicamente corretto”.