La sentenza di primo grado del 2017 è stata ribaltata e i familiari delle vittime, dopo anni, sono state premiati per la loro lotta nel cercare la verità.
Tra i condannati Jorge Troccoli, ex ufficiale dei servizi uruguayani, oggi unico residente in Italia, ritenuto il responsabile di alcuni omicidi degli anni bui di violenze e repressione delle idee socialiste da parte delle dittature sudamericane.
di Antonio Del Furbo
Oltre alle torture fisiche è bene ricordare anche il metodo dei “voli della morte” in cui migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, venivano gettati in mare vivi e sotto l’effetto di droghe da appositi aerei militari. Un’attività criminale che ha consegnato alla storia oltre 30mila desaparecidos. Tra questi anche 23 italiani.
Oggi, a distanza di anni, la Corte di Assise di Roma ha condannato all’ergastolo ventiquattro responsabili di quelle morti ingiuste pianificate dal cosiddetto Piano Condor.
Nella vicenda sono stati coinvolti ex capi di Stato ed esponenti delle giunte militari e dei servizi segreti di Bolivia, Cile, Uruguay e Perù, al potere tra gli anni ’70 e ’80 accusati del sequestro e dell’omicidio di 23 cittadini di origine italiana. I giudici oggi hanno disposto il risarcimento nei confronti delle 47 parti civili costituite da stabilirsi in sede civile, fissando una provvisionale immediatamente esecutiva di un milione di euro per la Presidenza del Consiglio dei ministri e di cifre comprese tra i 250mila euro e i 100mila euro per le altre parti civili.
“Negli anni di Governo ho avuto modo di seguire da vicino il c.d. ‘processo Condor’ in cui il governo italiano si era costituito parte civile a fianco delle famiglie dei nostri connazionali sequestrati e uccisi” ha detto l’onorevole Maria Elena Boschi. “Oggi, dopo decenni” ha aggiunto l’ex sottosegretaria “Il mio pensiero va alle famiglie delle vittime che ho avuto modo di incontrare nelle mie visite istituzionali in Sud America e a Roma e a tutti coloro che in questi anni hanno continuato a chiedere giustizia senza arrendersi.”
Il golpe
Era l’11 settembre del 1973 quando il palazzo della Moneda venne assaltato dalle forze golpiste e bombardato dagli aerei militari che scesero in picchiata su Santiago del Cile. Con Salvador Allende, eletto presidente della Repubblica nel 1970, c’erano i suoi fedelissimi del Gap (Gruppo di amici del presidente), una guardia privata in abiti borghesi composta da militanti del Partito socialista. Tra loro, nel coordinamento, c’era un ragazzo di 24 anni di origini piemontesi: Juan Montiglio. Anibal, questo il suo nome di battaglia, nella celebre foto dell’assalto alla Moneda si trovava alle spalle di Allende con l’elmetto.
A combattere in difesa del presidente rimasero i poliziotti e i ragazzi del Gap. Poco dopo Allende si suicidò con un colpo di pistola, mentre gli uomini che condussero l’estrema difesa della Moneda uscirono in fila indiana. Vennero fatti stendere sull’asfalto, con le mani dietro la nuca, e successivamente trasferiti alla caserma Tacna. I ragazzi del Gap vennero interrogati e torturati per due giorni, condotti a Pendehue e fucilati uno a uno. Non solo. I militari buttarono i corpi in una fossa comune e lanciarono dentro delle granate per smembrarli.
Il ritorno della democrazia
Da quando in Cile è tornata la democrazia, Alejandro Montiglio ha cercato di ricostruire gli eventi che hanno portato alla morte del padre.
“Trent’anni dopo hanno provato a dare un nome a quei resti. Un giorno il giudice ha fatto vedere a mia madre una ciotola: conteneva dei denti, un pezzo di falange… In seguito, hanno provato a fare l’esame del dna, ma non sono riusciti a stabilire niente. Quei resti non erano di Juan Montiglio. I denti non erano di Anibal”.
Montiglio è stato uno dei testimoni-chiave del processo che si è tenuto a Roma contro il Plan Condor, e che ha visto imputati 33 civili e militari cileni, uruguaiani, boliviani e peruviani responsabili della repressione totalitaria e del “terrorismo di stato” nei rispettivi paesi.
Per la morte di Juan Montiglio è stato condannato all’ergastolo Ahumada Valderrama, allora capitano dell’esercito cileno, responsabile dell’organizzazione del plotone di esecuzione dei membri del Gap.
Il “Piano Condor” aveva l’obiettivo di coordinare su scala internazionale la “guerra sporca” contro i movimenti guerriglieri, o più in generale di opposizione alle dittature. Per realizzare tale piano era necessario, secondo i militari, la condivisione di informazioni, azioni e metodi di interrogatorio, tortura, carcerazione, sparizione. La repressione si estende a macchia d’olio, nel momento in cui il concetto di “nemico” si estende a macchia d’olio. Da qui la necessità non solo di organizzare sistematicamente un vasto piano repressivo e di tenerlo il più possibile sotto silenzio.
A partire dagli anni ottanta del novecento, con il ritorno graduale della democrazia in tutti i paesi dell’America Latina, i processi per accertare la verità di quei fatti vengono bloccati.
Perché un processo anche in Italia? Perché da un lato gli scomparsi avevano origini italiane, erano figli di emigrati italiani o erano nati addirittura in Italia, dall’altro perché tra gli imputati figura anche Jorge Nestor Troccoli, negli anni settanta giovane ufficiale ai vertici dell’S2, il servizio di intelligence della Marina militare uruguaiana. Troccoli era l’unico dei 33 rinviati a giudizio a non essere processato in contumacia. Di origini campane, si era trasferito in Italia nel 2007 avvalendosi della doppia cittadinanza. Per evitare il processo in patria, Troccoli ha lasciato l’Uruguay attraverso il Brasile meridionale e da qui ha preso un volo verso quella che considera “la terra degli avi”. Poiché secondo la legge uruguaiana non è possibile processare nessuno in contumacia, il tribunale italiano ha potuto procedere anche per quelle presunte vittime, di cui Troccoli sarebbe stato responsabile, che non avevano origine italiana. Pertanto il processo Condor ha riguardato complessivamente 43 vittime: sei italoargentini, quattro italocileni (tra cui Juan Montiglio), 13 italouruguaiani e venti uruguaiani (cioè i membri del Gau).
Una prima sentenza per il processo del Plan Condor viene pronunciata nell’aula bunker di Rebibbia la sera del 17 gennaio 2017 dal presidente della corte Evelina Canale. Vengono condannati all’ergastolo i cileni Hernán Jerónimo Ramírez Ramírez e Rafael Ahumada Valderrama, l’uruguaiano Juan Carlos Blanco, i boliviani Luis García Meza Tejada e Luis Arce Gómez, i peruviani Francisco Morales-Bermúdez Cerruti, Pedro Richter Prada, Germán Ruiz Figueroa. A parte sei imputati nel frattempo deceduti, tutti gli altri vengono assolti perché il fatto non sussiste. Tra loro, viene assolto anche Jorge Nestor Troccoli.
Oggi la nuova sentenza che arriva a ridare dignità e rispetto alle vittime.