Ignazio Pullarà, il boss mafioso e le falle del sistema di sorveglianza
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Nel cuore dell’Italia, nella sala colloqui del carcere dell’Aquila, era il 2014 quando il boss ergastolano Ignazio Pullarà si trovava a discutere di affari con il figlio Santi, ignaro di essere ascoltato.

La frase «Com’è finito quel discorso, dei soldi della sala, hai risolto?» rappresentava molto più di una semplice domanda. Era l’espressione di un’organizzazione che, pur dietro le sbarre, continuava a mantenere il controllo del territorio. Ignazio Pullarà, storico reggente di Santa Maria di Gesù, incarcerato fin dal 1990, riceveva regolarmente aggiornamenti sulla gestione del clan dal figlio, anche lui figura di rilievo nella cosca. Santi Pullarà, sorvegliato speciale fino allo scorso ottobre, è stato arrestato dai carabinieri in passato, ma queste informazioni cruciali non sono mai arrivate sulla scrivania del giudice di sorveglianza di Cuneo, che, senza consultare la procura di Palermo, ha concesso al boss un permesso premio di 15 giorni.

Il dettaglio della DDA

Questo dettaglio, per molti incredibile, ha sorpreso la Direzione Distrettuale Antimafia, guidata da Maurizio de Lucia, che non era stata neppure avvisata del permesso iniziato il 22 ottobre. La presenza del boss a Palermo non è passata inosservata agli investigatori della squadra mobile, che hanno subito informato la procura.

Il caso ha sollevato un’ondata di reazioni e interrogativi, portando la senatrice Enza Rando, del Partito Democratico e membro della commissione antimafia, a presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio. «Un concatenarsi di cause», ha scritto Rando, riferendosi al prolungarsi dei processi e all’uso di permessi premio, «sta producendo il susseguirsi di scarcerazioni inaccettabili».

Il problema ruota attorno a una norma dell’ordinamento penitenziario, l’articolo 4 bis, comma 2 bis.1, che permette la concessione di benefici penitenziari, come i permessi premio, senza obbligo di consultare il pubblico ministero o la procura nazionale antimafia, se il detenuto ha usufruito di analoghi benefici nei tre mesi precedenti.

Nel caso di Pullarà, nessun parere è stato richiesto, né per questa né per le precedenti visite a Palermo.

Questo avveniva mentre il figlio continuava a essere sorvegliato speciale, e nel territorio operavano altri mafiosi di alto profilo recentemente scarcerati. L’autorevolezza di Santi, infatti, era dovuta in gran parte al peso del nome che portava, come evidenziato in un’intercettazione in cui un membro della cosca gli ricordava che il padre, persino in silenzio, gli insegnava più di quanto qualsiasi altro potesse fare.

A complicare il quadro, i carabinieri hanno scoperto che il clan si occupava del sostentamento di Pullarà in carcere. Nelle conversazioni, padre e figlio non perdevano occasione per discutere di questioni legate alla gestione economica del clan, come quando Santi esortava il padre a organizzare un incontro in carcere con Giovanni Adelfio, un altro boss in attesa di scarcerazione.

Questo caso, nel suo complesso, evidenzia il perdurante potere delle cosche, che trovano il modo di mantenere le proprie radici ben salde anche quando i loro capi sono rinchiusi.

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