11 minuti e 48 secondi. Questo è il tempo dell’ultimo tragitto di Giovanni Falcone, il celebre magistrato antimafia. Falcone stava tornando a Palermo da Roma con sua moglie, Francesca Morvillo.
Cinque giorni prima aveva festeggiato il suo 53esimo compleanno. Era una giornata calda a Palermo, ma il cielo era coperto e il sole non splendeva, con una temperatura di 23 gradi. Alle 17:45, Giovanni Falcone scese dal Falcon 10, partito da Ciampino, atterrato all’aeroporto di Punta Raisi.
Falcone prese il volante della Fiat Croma bianca, con accanto sua moglie Francesca, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sistemò sul sedile posteriore. La scorta era composta da altre due auto: nella Croma marrone c’erano Vito Schifani alla guida, l’agente scelto Antonio Montinaro e Rocco Dicillo sul sedile posteriore. Nella Croma azzurra viaggiavano Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Le tre auto si misero in fila, con la Croma marrone in testa, seguita dalla Croma bianca di Falcone e dalla Croma azzurra in coda. Imboccarono l’autostrada A29 in direzione Palermo. Da quel momento, Gioacchino La Barbera, un mafioso di Altofonte, seguì con la sua auto il corteo blindato dall’aeroporto fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè, capo della Famiglia di Altofonte, che si trovavano in osservazione sulle colline sopra Capaci.
Il viaggio verso Palermo, verso casa in via Notarbartolo, proseguiva con le auto della scorta e le mani di Falcone salde sul volante.
Poco distante, su un’altra auto, due mafiosi: Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondo. L’autostrada correva parallela al mare, lo stesso mare dove i mafiosi, il 21 giugno 1989, avevano tentato di uccidere Falcone. All’epoca, il giudice aveva affittato una villa all’Addaura per le vacanze. I mafiosi avevano piazzato un borsone contenente cinquantotto candelotti di tritolo tra gli scogli vicino alla villa. Il piano prevedeva di assassinare Falcone mentre scendeva sulla spiaggia per fare il bagno, ma l’attentato fallì a causa di un detonatore difettoso. Chissà se Falcone in quel momento guardava quel mare.
Erano 28 chilometri da percorrere per arrivare a casa. Lungo l’autostrada, un’altra auto, guidata da Augusto La Barbera, seguiva il corteo del magistrato, in contatto con Antonino Gioè e Giovanni Brusca, che osservavano dalla collina sopra Capaci, vedendo le auto avvicinarsi.
Alle 17:56 e 48 secondi, la Croma di Falcone raggiunse il chilometro 4,733 dell’autostrada, all’altezza di Capaci. Fu l’inizio dell’inferno: 500 chili di esplosivo disintegrarono quel tratto della A29, creando un cratere che aprì una voragine nella storia dell’Italia.
La Fiat Croma marrone fu investita in pieno dall’esplosione, balzando oltre la carreggiata opposta e finendo in un giardino di olivi. L’auto di Falcone si schiantò contro il muro di detriti che si alzò in aria. L’ultima auto del convoglio fu colpita da pezzi di cemento e terra, ma gli agenti a bordo riuscirono a sopravvivere.
Quell’attentato segnò una tragica svolta nella lotta alla mafia in Italia, trasformando Giovanni Falcone in un simbolo eterno della lotta contro la criminalità organizzata. La sua morte, insieme a quella della moglie e degli agenti di scorta, non fu vana. Il loro sacrificio scosse profondamente il paese, portando a un rinnovato impegno nella battaglia contro la mafia e a una serie di riforme che cambiarono per sempre il volto della giustizia italiana.