Tanti gli spunti di riflessione che il figlio di Don Vito Ciancimino, Massimo, che, insieme al giornalista Francesco La Licata, racconta nel libro “Don Vito”. Antonio del Furbo
È un libro che rappresenta un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Quarant’anni di fatti, relazioni segrete, occulte e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Al centro della narrazione la vicenda di Vito Ciancimino, “don Vito da Corleone”, uno dei protagonisti assoluti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, già potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. E lui, Massimo, è il testimone chiave di tutta questa vicenda in grado di squarciare il velo sui misteri di “don Vito”. Lui, il figlio ‘prescelto’ è oggi un testimone d’eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, quello che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Massimo è preciso, puntuale nella narrazione e riporta, per la prima volta, documenti originali e fotografie. Parla del “sacco di Palermo”, della nascita di Milano 2, di Calvi e lo Ior, di Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, delle stragi del ’92. Lui, Massimo, quel figlio che sta svelando la “Trattativa” avvenuta in quegli anni tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Che parla della cattura di Totò Riina, delle protezioni godute da Provenzano, della fondazione di Forza Italia e del ruolo di Marcello Dell’Utri, della perenne e inquietante presenza dei servizi segreti in ogni passaggio importante della storia del nostro paese.
Un figlio che soffriva per un amore che forse non c’era e se c’era stava ben nascosto:“il mio rapporto con mio padre non era un rapporto. Al cimitero ho difficoltà a ricordare un bel gesto di lui nei miei confronti”. Massimo è spontaneo, come quando qualcuno gli chiede il motivo dell’essersi esposto solo ora per il processo:“nessuno mi aveva chiamato per pormi domande giuste. E poi perché come padre vorrei trasmettere un altro messaggio ai miei figli, diverso da quello in cui sono nato io”. Un libro che nasce dalla volontà di Massimo Ciancimino di riscattare il suo nome, attraverso a conoscenza dei fatti, con l’intenzione di riabilitare la sua giovane famiglia, la moglie Carlotta e il figlio Vito Andrea di sei anni.
Lui, quel figlio tra i cinque, che non aveva ancora diciotto anni. “Un segretario-tuttofare” lo descrive Licata nel libro che entra “così direttamente nei misteri della doppia vita del “sindaco dei corleonesi”: un viatico che lo ha accompagnato fino al 6 giugno 2006, giorno in cui è stato arrestato con l’accusa di aver riciclato il “tesoro” del padre. È stato condannato in primo grado a cinque anni e mezzo di carcere, pena poi ridotta a tre anni e cinque mesi in sede di Appello. Sta collaborando con la magistratura per aiutare a fare luce sui segreti del padre e su quarant’anni di rapporti tra mafia e politica in Sicilia”.
Negli anni ottanta, Don Vito non amava radersi, ogni giorno si recava dal barbiere. Massimo attendeva il padre leggendo alcune riviste. Un giorno gli capitò di leggere su Epoca una ricostruzione dell’identikit di Bernardo Provenzano. In quell’occasione il giovane Massimo scoprì che il padre frequentava il boss e non l’Ingegner Lo Verde. Mentre tornavano a casa, Massimo chiese al padre se Lo Verde fosse quel Provenzano del giornale. Il padre rimase in silenzio e gli disse di non raccontare a nessuno ciò che aveva saputo:“perché da certe persone non ti posso difendere neppure io”. E Massimo riferisce un aspetto chiave nel libro che permette di far comprendere cosa avvenne in quegli anni:“mio padre diede una lettura molto precisa sull’omicidio Mattarella: la volontà fu quella di assecondare una parte terza, con altri interessi e che avevano stanze negli ambienti romani. Gli stessi in grado di condizionare programmare uno come Riina per fargli organizzare una serie di omicidi ed eventi che hanno caratterizzato gli anni, appunto, delle stragi”. Con il tempo quel timido ragazzo si trasformò in ‘postino’. Guardò con i propri occhi quella realtà fatta di commistioni tra mafia e politica. Conobbe latitanti, partecipò a cene con mafiosi, strinse la mano a Lima. Seppe dei cugini Salvo, dei Cassina, dei Vaselli, del costruttore Vassallo e Bonura e Buscemi, detti i “gemelli del mattone”. Un sistema Ciancimino che arrivò a Roma e invase il Nord Italia, Usa e Canada.
“Conobbi Lima – racconta Massimo nel libro – quando entrai a far parte della “grande famiglia” (si fa per dire) della Democrazia Cristiana… ritenevo che tutti i democristiani credessero in Dio e che applicassero rigorosamente i dieci comandamenti. Sono stato subito deluso e arrivai alla conclusione (se vogliamo arrogante) che io ero di gran lunga migliore di loro. Tuttavia… mi trovavo nel “ballo” e continuai a “ballare”. E poi:”Neanche mi sento colpevole per le tangenti, perché io le ho avute e le ho contabilizzate ai miei referenti politici che era lo Stato. Lo Stato funzionava così e lo sapevano tutti, dai presidenti della Repubblica a scendere”. Lapidario Don Vito sulle stragi del ’92:”questo è terrorismo, non è mafia”.
L’ala stragista, secondo Andrea Camilleri, fu organizzata e voluta da Provenzano:“non credo si possa chiamare trattativa quella prima della morte di Ciancimino e l’arresto di Riina. Credo che si possa chiamare approccio, contatto. Per fare una trattativa ci si siede attorno ad un tavolo. Da una parte ci sono due ministri potenziali Don Vito e Provenzano che rappresentano se stessi e hanno le carte in regola. Dall’altra parte c’è un colonnello dei carabinieri senza credenziali ma con appoggi politici alle spalle che però non si possono svelare. Perché trattare con lui?” chiede Camilleri. Lo Stato è una cosa, la politica è un’altra. Per lo scrittore l’operazione fu ordita da Provenzano per far uscire allo scoperto Riina con la storia dei pizzini. “Giuffrè – continua Camilleri – , il pentito, rivela che Provenzano prima delle stragi venne messo al corrente delle intenzioni stragistiche di Riina e se ne spaventò. Quindi incaricò Vito Ciancimino per vedere come fossero accolte le stragi presso la politica e Pino Lipari presso gli industriali”. Giuffrè rivelò di:”non conoscere i risultati ma fu certo che gruppi industriali del Nord si mostrarono favorevoli all’eliminazione di Falcone e Borsellino in quanto magistrati particolarmente mirati al rapporto mafia-appalti in grado di danneggiare gravemente gli interessi degli stessi industriali.”
Due mesi dopo, furono eliminati i due ostacoli (Riina e Ciancimino) e, solo a quel punto, iniziò la Trattativa. Ma, questa volta, al posto dello Stato siedevano i politici. Con i volti nuovi.