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Diritto all’oblio? Sì, ma solo per politica e lobby. Per le attività commerciali non vale.

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I giudici, ancora una volta, fanno giurisprudenza su una delle questioni più scottanti degli ultimi anni e che riguardano la galassia internet.

Il diritto all’oblio sul web, dunque, non vale per un negozio, un ristorante o un professionista che offra un servizio al pubblico. A deciderlo ben due Tribunali di Roma che, con la loro sentenza, segnano un precedente nell’epoca digitale. I servizi di recensioni devono esserci a prescindere dalla volontà di chi viene recensito in quanto prevale il diritto di critica degli utenti rispetto alla posizione del gestore. Le recensioni possono anche essere negative: conta di più l’interesse generale che quello del singolo.




Il caso in cui hanno sentenziato i giudici è quello di un chirurgo plastico di Roma che voleva fare un ritocco alla propria scheda su Google My Business, il servizio del motore di ricerca dove gli utenti possono recensire varie attività. Il medico aveva trovato quattro recensioni abbastanza critiche riguardo il suo lavoro. Il chirurgo ha dunque fatto causa a Google, chiedendo alla società di rimuovere la propria scheda dai risultati di ricerca, o almeno di cancellare i commenti negativi. La diciottesima sezione civile del Tribunale di Roma, però, ha respinto la richiesta del chirurgo, condannandolo in primo grado al pagamento delle spese legali.

La decisione si richiama a principi chiave sanciti dalla costituzione, come libertà di espressione e libertà d’impresa. Ad oggi 9 consumatori su 10 leggono le recensioni online prima di effettuare un acquisto, sia in un negozio fisico che in rete. Secondo il giudice, rimuovere questa funzione non è giusto: “Il diritto di critica può essere esercitato anche in modo graffiante e con toni aspri”, si legge nella decisione. Chi offre un servizio al pubblico deve accettare le critiche, dice il giudice, e Google non deve filtrare i contenuti degli utenti.

Non si può non rilevare, però, che la decisione dei giudici italiani, in un certo modo, contraddice il principio sancito dalla Corte di giustizia europea che ha istituito nei fatti il diritto all’oblio per tutelare il passato dei cittadini in modo proporzionato. La legge, insomma, vale per il cittadino ma non per un negozio.

A dir poco suggestivo è stato il caso di PrimaDaNoi.it, quotidiano d’inchiesta costretto a chiudere battenti, tra l’altro, proprio per il diritto all’oblio. “La data di scadenza per un articolo come il latte o il gelato che si squaglia” ironizzava sul quotidiano inglese The Guardian  Athalie Matthews, il giornalista che curò l’approfondimento. Si trattava per il giornale inglese di una decisione che avrebbe provocato una “censura delle notizie scomode”.

Il giornale on line che ha in archivio articoli viola la legge sulla privacy perché detiene dati sensibili senza il consenso dell’interessato. A dirlo fu la Cassazione che confermò la seconda sentenza del tribunale di Ortona del gennaio 2013 che, per la seconda volta in Italia, sancì “l’esistenza del diritto all’oblio applicandolo alla cancellazione integrale e totale degli articoli anche dagli archivi dei siti on line” riportò Primadanoi. “La sentenza della Cassazione 13161/16 confermò di fatto la sentenza 3/2013 del tribunale di Ortona che aveva stabilito che un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria.”

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