La sentenza era attesa da oltre trent’anni dal papà di Nino Agostino. Da trentun anni per la precisione. Agostino aspettava di vedere in faccia i mafiosi accusati dell’omicidio di suo figlio Nino, agente di polizia assassinato con la moglie Ida, a Villagrazia di Carini.
“Trentun anni a chiedere giustizia, in solitudine”, spiega l’uomo che un giorno di agosto del 1989 promise di non tagliarsi la barba fino a quando non avrebbe saputo la verità. “Anche in questo giorno così importante lo Stato non è al mio fianco. Non si è costituito parte civile”, dice Vincenzo Agostino mentre cammina lentamente nella grande aula bunker dell’Ucciardone, la storica aula dove si celebrò il primo maxiprocesso alle cosche mafiose. L’11 settembre si è tenuta l’udienza preliminare per il delitto di Nino e Ida, imputati i boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia, poi anche un amico di Nino, Francesco Paolo Rizzuto, accusato di avere aiutato i sicari. Un’udienza storica. “Ma oggi lo Stato non c’è in questa aula – ripete Vincenzo Agostino – non c’è il ministero dell’Interno, non c’è la presidenza del Consiglio. Eppure, Nino era un bravo poliziotto, morto nell’adempimento del dovere”.
Il processo
“Perché lo Stato non si è costituito? Forse si sente in colpa? Forse l’hanno solo dimenticato e magari si costituiranno alla prossima udienza” chiede Agostino. Dice l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile della famiglia Agostino: “Purtroppo, le gravi assenze di oggi sono in linea con quanto avvenuto in questi trentuno anni: mai nessun rappresentante delle istituzioni ha chiesto giustizia per questo poliziotto coraggioso. E un motivo c’è. Nino Agostino venne stritolato da un blocco di potere e di complicità all’interno della polizia di Stato”. L’indagine della procura generale sostiene che Nino Agostino facesse parte di una squadra speciale addetta alla cattura dei grandi latitanti di mafia. Durante questa attività sotto copertura avrebbe scoperto le relazioni pericolose di alcuni poliziotti con esponenti di Cosa nostra.
“Questo processo è centrale nella ricostruzione di una stagione drammatica per la storia del nostro Paese – prosegue l’avvocato Repici – ma qualcuno, all’interno della politica e del mondo dell’informazione, non vuole che se ne parli. La famiglia Agostino farà in modo che tutto ciò non accada”.
Le indagini
Secondo le indagini Agostino sarebbe stato impegnato nella ricerca dei latitanti. Indagava sul fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone. Dopo l’omicidio, per il quale il capo della Mobile Arnaldo La Barbera batté la pista passionale, il secondo tentativo di depistaggio proseguì. Furono fatte sparire le carte di Agostino che il poliziotto conservava nell’armadio di casa sua. Il padre, Vincenzo, ha sempre raccontato che “mio figlio nel portafogli portava un biglietto in cui era scritto di andare a cercare dentro il suo armadio nel caso in cui gli fosse successo qualcosa“. Gli appunti, però, sparirono.
Nella sua casa di Altofonte ad arrivare per primo fu un poliziotto, Guido Paolilli, che, parlando con il figlio, inconsapevole di essere intercettato, ammise, di avere fatto “sparire una freca di carte”. Indagato per favoreggiamento, la sua posizione è archiviata per prescrizione. A Paolilli, però, Vincenzo Agostino ha chiesto un risarcimento di 50mila euro.
Alle infinite anomalie investigative che hanno allontanato la verità si è aggiunto anche altro: Vincenzo Agostino ha dovuto fare i conti, in un confronto all’americana, con Giovanni Aiello, ex agente di polizia ritenuto vicino ai servizi segreti e conosciuto anche come “faccia da mostro” per una cicatrice sul volto. Morto nel 2017, Aiello era tra gli indagati del delitto Agostino. Secondo l’accusa avrebbe aiutato i due presunti killer, Madonia e Scotto, a fuggire. Vincenzo Agostino, durante il confronto nell’aula bunker dell’Ucciardone, lo aveva riconosciuto tra le lacrime e le urla di dolore come l’uomo che, una settimana prima dell’omicidio, si era presentato a casa sua per chiedere del figlio.