L’intervista del patron di Uber ha aperto uno squarcio interessante sulla vicenda del giornalista, Jamal Khashoggi, morto l’anno scorso in seguito a un’esecuzione.
Dara Khosrowshahi, amministratore delegato della multinazionale americana che offre servizi di trasporto automobilistico, ha rilasciato delle dichiarazioni sulla morte di Khashoggi al sito web americano di informazione Axios.
L’omicidio è stato un “errore”
Al centro delle dichiarazioni, la sua risposta alla domanda se fosse imbarazzante o meno la presenza del governo saudita, presunto mandante dell’assassinio del giornalista, nel capitale azionario di Uber. “Mi sembra che le autorità saudite siano intervenute sulla vicenda-Khashoggi definendola un loro errore” ha provato a giustificare. Khosrowshahi ha poi cercato di equiparare l’“errore” commesso dall’esecutivo del Paese islamico, ossia l’uccisione di un intellettuale scomodo, ad alcune strategie produttive infruttuose promosse da Uber, come il lancio delle auto senza pilota: “Il caso-Khashoggi è stato un grave errore Anche la mia compagnia ha compiuto degli sbagli, come la scelta di avviare la produzione di veicoli senza conducente. Abbiamo dovuto infatti bloccare la sperimentazione di quel prodotto e stiamo ancora pagando i danni di quell’errore”.
La ritrattazione
Dopo la pubblicazione su Internet dell’intervista, la Bbc riferisce che la Khosrowshahi ha inviato una email alla redazione di, contenente una “ritrattazione” delle sue parole rilasciate in precedenza circa la morte del giornalista.
Nella lettera, l’amministratore delegato di Uber dichiara: “Durante quell’intervista, ho detto cose in cui non credo assolutamente”. Il testo prosegue con una netta condanna dei responsabili dell’omicidio-Khashoggi: “Per quanto riguarda la vicenda di Jamal Khashoggi, intendo chiarire che la sua uccisione è stata deplorevole e non dovrebbe essere mai dimenticata o giustificata”.
Chi era Jamal Khashoggi?
Il giornalista avrebbe compiuto 60 il 14 ottobre del 2018, ovvero dodici giorni dopo la sua scomparsa avvenuta il del 2 ottobre. Alle 13 il giornalista di Medina era entrato nel consolato saudita di Istanbul, per ritirare i documenti del suo divorzio. Da quel palazzo non è più uscito. Un possibile omicidio in cui le responsabilità salgono fino a Mohammad Bin Salman.
La scomparsa
Il giornalista saudita era parente dell’imprenditore miliardario Adnan e cugino di Dodi Al Fayed. Per questo, e soprattutto per la voce da dissidente che rappresentava nell’area mediorientale, il caso ha avuto un risvolto internazionale. Un uomo scomodo, quasi intoccabile perché molto vicino alla famiglia reale e poi emblema di libertà per diversi oppositori del governo saudita.
Jamal Khashoggi aveva frequentato l’Indiana University, negli Stati Uniti. La sua carriera giornalistica iniziò come corrispondente per il Saudi Gazette. Dal 1987 al 1990 lavorò come reporter per il quotidiano Asharq Al-Awsat, giornale di proprietà saudita ma con sede a Londra, e negli otto anni successivi collaborò per il panarabo Al-Hayat. Un lavoro giornalistico che portò a raccontare l’Afghanistan, l’Algeria e il Kuwait negli anni più difficili.
Il dissidente
A metà anni Novanta intervistò Osama Bin Laden, molto prima che diventasse il leader riconosciuto di Al Qaeda. Nel 1999 ricoprì il ruolo di vicedirettore di Arab News. Fu consigliere e capo ufficio stampa della famiglia reale, lavorò anche per Al-Watan, dove però iniziarono le prime stranezze: dal quotidiano, infatti, sarebbe stato mandato via, senza particolari ragioni, nel 2003, probabilmente per problemi legati alla politica editoriale. Fu reintegrato nel 2007, ma lo allontanò un nuovo licenziamento, nel 2010. Divenne direttore generale del canale news Al Arab, di proprietà del Principe Alwaleed Bin Talal e gestito da Manhama, in Bahrein . Il network chiuse il giorno successivo al suo lancio, nel febbraio del 2015. Negli anni, Khashoggi è divenuto un oppositore delle politiche del principe ereditario Mohammed Bin Salman, proprio in seguito alle promesse di riforma e all’ondata di arresti e di repressione.
Il giornalista contro
Khashoggi ha sempre scritto e raccontato ciò che vedeva e pensava. Nel 2017 si è esposto attaccando apertamente le politiche del Paese. Si era trasferito a Washington dopo che, di fatto, la presenza in Arabia Saudita non sembrava più gradita. Disse che gli era stato ordinato di tacere. Invito che, però, non aveva accolto. “L’Arabia Saudita non è sempre stata così repressiva. Ora è insopportabile”: sul Washington Post, nel settembre dello stesso anno, aveva fatto pubblicare questo articolo. E su Twitter aveva aggiunto: “Non sono contento di pubblicare questo pezzo, ma il silenzio non serve al mio Paese”. Il Riadnon aveva ben accolto queste uscite e, poco dopo, il quotidiano Al-Hayat aveva deciso di chiudere il loro rapporto di lavoro, censurando tutti i suoi scritti. Khashoggi sulle colonne del Washington Post descrisse le complessità dei difficili equilibri sociali di Riad paragonando le politiche del principe ereditario a quelle di Vladimir Putin.