La polemica sulla vicenda della nomina (non andata a buon fine) di Nino Di Matteo a capo del Dap non vede fine. L‘ex pubblico ministero antimafia, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura, scaglia un altro macigno sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, coinvolto nel Dap-gate.
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Mancati gradimenti per Di Matteo
“Non è una vicenda personale, ma istituzionale”, accusa Di Matteo. E, in commissione parlamentare antimafia, rilancia: “Nel momento del dietrofront mi fece chiaramente intendere che c’erano stati dinieghi o mancati gradimenti. A chi si riferisse può dirlo solo lui”. Poi rivela: “Prima delle elezioni del 2018, in due occasioni, Luigi Di Maio mi chiese se ero disponibile a fare il ministro; la prima volta dell’Interno o della Giustizia, la seconda dell’Interno. Diedi una disponibilità di massima, ma poi nessuno mi ha più chiamato”.
L’audizione di Bonafede
Si tratta, per Di Matteo, di un precedente che rafforza i dubbi sul ‘dietrofront’ di Bonafede. “Che segnale diamo alla mafia? Non c’è da fare nessuna pace con il ministro perché non c’è stata una guerra; non è un problema di invidiuzze o posti da reclamare, bensì una questione dalle implicazioni istituzionali” precisa Di Matteo. “Mi pare che il dottor Di Matteo – chiosa il presidente dell’Antimafia Nicola Morra chiosa – abbia parlato con sufficiente chiarezza“. Ora in commissione si attenderà l’audizione di Bonafede.
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Il commissario del Partito democratico Walter Verini ha chiesto a Di Matteo se dietro la mancata nomina c’erano indizi di una nuova trattativa tra lo Stato e la mafia: “Sarei andato in una Procura della Repubblica”.
La strategia Bonafede
Di Matteo ricorda che per motivare il suo ripensamento Bonafede cercò di sminuire il ruolo del Dap rispetto all’impegno antimafia, mostrando “di non essere in grado di valutare bene determinate dinamiche della lotta alla mafia. La corretta gestione del circuito carcerario è centrale nel contrasto alle organizzazioni mafiose, sia per dare sostanza al ’41 bis’, sia per evitare inquinamenti da parte dei servizi segreti, sia per la valorizzazione delle attività della polizia penitenziaria a scopi informativi e investigativi“.
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“Sono state un segnale devastante, da parte della mafia può essere stato interpretato come un cedimento, e un motivo speranza per loro” ha continuato il magistrato parlando delle scarcerazioni. “È chiaro che le scarcerazioni a me hanno fatto venire in mente le vicende vissute a Palermo, e una possibile analogia con il ricatto portato avanti con le bombe del 1993, di cui ci parlò l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ero preoccupato perché c’erano state le rivolte nei penitenziari, e si pensava che potevano essere state organizzate a un livello più alto dei detenuti saliti sui tetti”.
“Ridurre tutto a un malinteso o una percezione sbagliata non è corretto – accusa ancora l’ex pm -, perché significa farmi passare per uno che non capisce”.