La situazione attuale sui mercati alimentari mondiali è il frutto di eventi a cascata: il conflitto è solo un fattore accelerante. Tra le teorie dei cambiamenti climatici ed esasperate dalla pandemia da cui non siamo ancora del tutto usciti.
Crisi mercato alimentare. “Da Ucraina e Russia compriamo poco frumento tenero e ancora meno frumento duro” spiega a Repubblica Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti. “Questo significa che per i prodotti da forno e per la pasta siamo poco dipendenti da questi due Paesi. L’insieme delle importazioni da Ucraina e Russia rappresentano il 5-6%, mentre in totale importiamo circa il 60% del nostro fabbisogno di frumento tenero e il 40% di quello duro”.
Questo significa che sono altri i partner commerciali dell’Italia in ambito alimentare.
“L’Ungheria è il nostro primo fornitore sia di frumento tenero che di mais. Poi il Canada, gli Stati Uniti, la Francia a seconda del tipo di prodotto. Dall’Ucraina importiamo tantissimo olio di girasole che ha sostituito quello di palma in molti prodotti da forno”. Tutto ciò, per quanto rilevante, non giustifica un allarme alimentare in Italia. “Non c’è rischio alimentare. Le necessità che abbiamo riguardano le esportazioni, esportiamo circa il 50% della pasta prodotta in Italia e il 43-45% dei prodotti da forno. Oltre alle esportazioni, questa situazione non giova neanche agli animali. Questa è la chiave di volta”.
I rapporti commerciali tra Italia e Ucraina
I dati più recenti elaborati dall’Osservatorio economico del governo italiano e riguardanti i primi 10 mesi del 2021 sono rivelano che se c’è un rapporto commerciale di dipendenza diretta tra Ucraina e Italia questo è a vantaggio dell’Italia. L’Ucraina è il trentunesimo fornitore dell’Italia con una quota di importazioni dello 0,7%. Mentre l’Ucraina acquista dall’Italia il 3,6% delle merci che importa e ciò fa di Roma l’ottavo fornitore di Kiev.
Cosa importiamo dall’Ucraina
Dall’Ucraina arriva soltanto il 2,7% del totale del grano da panificazione che importiamo, cifra che sale al 15% se si parla di grano destinato all’alimentazione animale. Rispettivamente di 122 mila tonnellate e di 785 mila tonnellate. A questi dati, risalenti al 2021, si vanno ad aggiungere le 100 mila tonnellate di grano importato dalla Russia. Sommando i tipi di grano l’Italia importa da diversi Pesi il 64% del proprio fabbisogno e, come vedremo, ciò è dovuta a una politica agraria perfettibile.
In termini economici, l’Ucraina fornisce all’Italia soprattutto prodotti metallurgici e quelli che rientrano nella categoria “agricoltura, pesca e silvicoltura”. In termini percentuali quest’ultima voce corrisponde al 7,2% del totale degli acquisti italiani in Ucraina. Non si tratta di grandi quantità né dal punto di vista percentuale né da quello economico. Anche ciò certifica che l’Italia è poco dipendente dall’Ucraina ma più soggetta alle conseguenze del conflitto. Altro discorso è l’olio di girasole, molto usato nell’industria alimentare, di cui l’Ucraina è produttrice di rilievo.
I rapporti commerciali tra Italia e Russia
Sempre l’Osservatorio economico del governo, con dati aggiornati a gennaio del 2022, ci rappresenta che, benché di importi e percentuali più rilevanti, l’export verso l’Italia non è tale da giustificare un rapporto di dipendenza diretta.
Le importazioni di prodotti della voce “agricoltura, pesca e selvicoltura” sono pari a 144 milioni di euro, cifra che non lascia pensare ad una dipendenza inossidabile e, per quanto riguarda il totale delle importazioni, la Russia è l’ottavo partner commerciale dell’Italia con il 3% del totale dell’import.
I blocchi collaterali
A complicare la situazione, spiega Repubblica, ci sono i blocchi all’export di grano imposti da Bulgaria e Ungheria, anche se un colloquio tra il premier Mario Draghi e il suo pari ungherese Viktor Orbán ha permesso di sbloccare le forniture relative soltanto ai contratti in essere, cosa che riesce a colmare le necessità dell’Italia per l’immediato futuro ma non dà garanzie sul medio-lungo periodo. Un aspetto problematico per l’Italia, che importa da Budapest il 23% del grano tenero e il 32% di quello duro. Il blocco è stato fortemente voluto dal ministro per l’Agricoltura ungherese István Nagy lo scorso 5 marzo a tutela delle scorte e dell’agricoltura interne.
Al blocco dell’export di grano deciso dalla Bulgaria e all’Ungheria si sono uniti anche Egitto e Kuwait e, a seguire, si è aggiunta l’Argentina che, per le stesse ragioni di tutela nazionale, ha interrotto le esportazioni di farine e di soia. Un problema che ha ricadute dirette soprattutto sull’industria dei mangimi e quindi sull’allevamento di animali.
L’autosufficienza italiana
I dati Coldiretti disegnano un’Italia scarsamente autosufficiente nel comparto alimentare: produciamo il 36% del grano tenero necessario, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 51% della carne bovina e il 63% di quella suina. I latticini sono all’84% di autoapprovvigionamento. Il resto del fabbisogno è acquistato all’estero e il protezionismo degli altri Paesi impatta sia sulle quantità che esportano sia sui prezzi.
Le conseguenze del conflitto tra Russia e Ucraina sono un campanello d’allarme: l’Italia può diventare più autosufficiente e se oggi non è lecito parlare di crisi alimentare, questo non significa che in futuro, con l’aggravarsi per qualsivoglia motivo dello scenario internazionale e in assenza di interventi mirati, la situazione non possa peggiorare.
Più che la dipendenza diretta da Russia e Ucraina per quanto riguarda le derrate alimentari, a pesare sono le conseguenze del conflitto soprattutto sui prezzi dell’energia e le politiche protezionistiche attuate da diverse Nazioni.
Le soluzioni
“C’è spazio per circa un milione di ettari – spiega Bazzana – pari a 75 milioni di quintali di cereali la cui coltivazione dovrebbe essere programmata in un paio d’anni. Crediamo sia importante aumentare la percentuale di autoapprovvigionamento del Paese, lo abbiamo visto prima con la pandemia e poi con la guerra tra Russia e Ucraina. Bisogna fare quello che è necessario attraverso contratti di filiera e riuscire a recuperare la coltivazione di quei terreni che, nel corso degli anni, o sono stati lasciati a riposo in conseguenza delle politiche europee oppure non sono stati coltivati per via della redditività poco bassa“.
Francesco Sottile, docente dell’Università di Palermo e membro della fondazione Slow Food per la biodiversità è dello stesso avviso: “Dobbiamo avere una pianificazione in ambito agricolo che rispetti la vocazione ambientale e la biodiversità. Questi sono strumenti per dare valore ai territori, alle comunità che producono e ai prodotti che si possono ottenere. Mettere insieme questi tre elementi darà risposte nel medio periodo”.
I contadini
“Il fatto di avere importato per decenni grano da altri Paesi a un costo inferiore ha demoralizzato i contadini e li ha portati a scegliere soluzioni che hanno mortificato il loro lavoro e il loro sapere. Un ritorno a una valorizzazione della filiera italiana costruita attraverso una corretta pianificazione dà un contributo se non alla totale autosufficienza, almeno alla maggiore sicurezza alimentare del nostro Paese”, spiega Sottile.
Che ribadisce: “Al momento non c’è una crisi elementare, c’è una crisi di alcune materie prime che non ha attinenza diretta con la guerra ma che è causata dal cambiamento climatico. Basti pensare alle siccità dello scorso anno in America del Nord che hanno causato una riduzione della produzione di cereali. Questo ha avuto ripercussioni in tutti i Paesi importatori, quelli europei in primis. La diminuzione delle produzioni ha causato un innalzamento dei prezzi, ma sono dovute soprattutto alla crisi climatica. La contingenza della guerra ha determinato degli effetti su alcuni prodotti, ma non c’è una crisi alimentare globalizzata. Bisogna rafforza le politiche che vanno a vantaggio della conversione ecologica in agricoltura. La crisi climatica non si risolve prendendo soltanto dei provvedimenti normativi, ma cambiando gli stili di vita dei consumatori”.
Le strategie europee
Il Green deal prevede, limitatamente ai concimi, la riduzione entro il 2030 del 20% dei fertilizzanti e l’aumento del 25% delle produzioni biologiche. Quest’ultima necessita di concimi naturali e, per l’ennesima volta, assume un’importanza strategica l’allevamento di bestiame, il cui letame contribuisce a limitare l’uso di concimi chimici. Le conseguenze dirette e indirette del conflitto russo-ucraino si ripercuotono sui mangimi per il bestiame e, in ultima analisi, anche questo aspetto spinge verso l’alto la necessità che l’Italia raggiunga una maggiore indipendenza nelle coltivazioni. Per uscire da questo circolo, conclude Bazzana di Coldiretti, “Bisogna mettere a coltura quel milione di ettari di cui parlavo prima perché noi, fino a dieci anni fa, eravamo autosufficienti per quello che riguarda la produzione di mais che serve per l’alimentazione degli animali. Se mettessimo a coltivazione circa 500 mila ettari di mais avremmo il 90-95% di autosufficienza”.