I dubbi sull’operazione russa in Italia emersero immediatamente. Fu annunciato lo sbarco di esperti in bonifiche ambientali per i nostri ospedali e residenze per anziani. E invece nella spedizione c’erano epidemiologi, studiosi di virus, topi da laboratorio.
I carabinieri e gli uomini dell’intelligence che per questo, sin da subito, decidono di non perdere d’occhio i 104 russi mandati sul campo in Lombardia in pieno Covid. Gli appunti trovati quasi per caso, con un elenco di domande da fare agli italiani che nulla avevano a che fare con lo scopo ufficiale della missione. Ma che invece cercavano di capire come evolvevano le condizioni dei pazienti. L’imbarazzo del nostro governo. E la decisione del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, d’accordo con l’allora premier Giuseppe Conte, che il 7 maggio ringrazia e di fatto blocca il prosieguo della spedizione, quando l’ambasciatore russo era invece pronto a inviare uomini in Puglia e Piemonte.
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L’“operazione virus”, la missione russa in Italia dal marzo al maggio 2020, ufficialmente nata per contribuire alla lotta contro il Covid, sta sostanzialmente in questi termini: un paese straniero che in qualche modo approfitta dello stato di necessità dell’Italia e, nascondendosi dietro gli aiuti, cerca di rubare informazioni sanitarie. Senza però mai condividerne sviluppo e conclusioni.
Ora però c’è qualcuno che vuole sapere se altro non è mai emerso.
E soprattutto che tipo di contromisure avessero preso il governo e il premier per evitare che una missione di aiuto si trasformasse in un’operazione di spionaggio. Dunque, dopo un lungo dibattito interno, il comitato di presidenza del Copasir ha annunciato che chiederà di ascoltare l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte per ricostruire tutti gli aspetti di quel viaggio. A partire da come sia nato.
Secondo quanto Repubblica ha potuto ricostruire, il primo contatto ufficiale è dei primi giorni di marzo. In Russia il virus non era arrivato mentre da noi la situazione era disperata: mancavano le mascherine, niente respiratori. I russi scrivono al Coi, il Comando operativo interforze, offrendo supporto: la risposta della Difesa è di richiedere le protezioni per i nostri sanitari che, come al fronte, cominciavano a morire. E dunque, mascherine FfP2 e FfP3. È venerdì 20 marzo quando Guerini sente il suo omologo, Sergej Soigu.
Promette una spedizione per il lunedì successivo.
“Grazie – dice Guerini – per fare prima possiamo mandare nostri aerei a prendere il materiale” . “Non c’è bisogno – è la replica – e comunque aspettiamo che Putin e Conte si sentano, la telefonata è prevista per lunedì”. Si sentono anche prima, sabato 21 marzo: il leader russo non offre solo mascherine, ma la disponibilità dei suoi uomini. E il premier italiano accetta. E così sulla pista di Pratica di Mare domenica 22 marzo non sbarcano solo container pieni di mascherine e tute. E nemmeno bonificatori: ma scienziati con apparecchiature sofisticate.
Il resto sono 45 giorni tremendi, con i camion militari italiani che portano le bare a Bergamo e, accanto, il laboratorio mobile russo che studia – quasi di nascosto – il virus. Con i nostri carabinieri e agenti dell’intelligence che li controllano a vista. Nel frattempo il governo, anche grazie alle decisioni di Guerini e di altri ministri, tra cui Enzo Amendola, ammortizzano il danno: sulla carta infatti i russi avrebbero dovuto mandare 8 squadre da 40 “bonificatori”, ne arrivano solo alcune decine. E l’intera spedizione si riduce da circa 500 a 104. Qualcuno, forse, è entrato sotto falso nome. Certo è che tutto finisce il 7 maggio, quando Guerini richiama il collega Soigu.