La produzione dei vaccini per il covid sta dando non pochi problemi alla comunità scientifica. Di recente due test non hanno dato buone notizie. (I test sui vaccini anti-Covid non danno buoni risultati – I farmaci Hiv non danno risultati contro il Covid-19)
In queste ore abbiamo scoperto che il bacillo di Calmette e Guérin, utilizzato come vaccino contro la tubercolosi sin dal 1921, potrebbe rivelarsi utile nel contrastare l’avanzata del coronavirusi. Una parte della comunità scientifica è convinta che il preparato potrebbe potenziare la risposta immunitaria nei confronti del coronavirus. La verifica verrà fatta da una sperimentazione internazionale, denominata Brace-Study, a cui prendono parte diecimila volontari in Australia, Brasile, Olanda, Spagna e Regno Unito. È importante sapere che i volontari sono reclutati tra i lavoratori ospedalieri data la maggiore probabilità di entrare in contatto con il virus. Il Professor John Campbell, che lavora presso la University of Exeter Medical School, ha affermato alla BBC che “la protezione fornita dal bacillo non è specifica per il Covid ma può far guadagnare tempo nell’attesa che vengano sviluppati trattamenti efficaci”.
Le evidenze della scienza
Secondo Tedros Adhanom Ghebreyesus, presidente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il vaccino per la tubercolosi potrebbe dare ottimi risultati per la guerra al covid. Tra gli inconvenienti c’è il fatto che le persone già vaccinate contro la tubercolosi dovrebbero ricevere una nuova somministrazione del preparato (che non fa sviluppare anticorpi specifici) per trarne beneficio. La somministrazione del vaccino contro la tubercolosi, in particolare in soggetti con meno di 24 anni che lo hanno ricevuto negli ultimi 15 anni, è associata ad una migliore prognosi in caso di infezione da Covid-19. I ricercatori evidenziano una riduzione nel tasso di infezione e di mortalità per milione di abitanti nella fascia d’età presa in esame ma non ci sarebbero stati effetti significativi negli adulti di età più avanzata.
Quali sviluppi?
Dunque, il vaccino contro la tubercolosi risulta efficace nei bambini ma non per gli adulti a rischio covid-19. La produzione del preparato potrebbe risultare più difficile del previsto ed anche in passato sono state riscontrate carenze su scala globale che hanno impedito a molti bambini di vaccinarsi.
Johnson&Johnson ferma studio su vaccino: “Malattia inspiegabile in un volontario”
“La malattia del partecipante ai test clinici è oggetto di valutazione”, spiega l’azienda statunitense. Per ora tutti gli studi restano fermi
Così anche la Johnson&Johnson comunica brutte notizie sul fronte vaccino, dopo la casa farmaceutica AstraZeneca . La multinazionale statunitense è stata costretta a interrompere i lavori a causa di una reazione avversa sviluppatasi in uno dei volontari che aveva deciso di testare il prodotto.
In merito all’episodio non sono stati ancora riferiti molti dettagli, soprattutto per rispettare la privacy della persona interessata. Ufficialmente il paziente, dopo essersi sottoposto alla sperimentazione, si è improvvisamente ammalato e adesso un apposito comitato si sta occupando di monitorare le sue condizioni di salute.
Le linee guida
Le linee guida da rispettare in questo caso “garantiscono che i nostri studi possano essere sospesi se viene segnalato un evento avverso grave inaspettato che potrebbe essere correlato a un vaccino o al farmaco in esame”, dicono gli esperti.“Quindi ci può essere un’attenta revisione di tutte le informazioni mediche prima di decidere se riavviare il lavoro”.
La doccia fredda
Il “Wall Street Journal” spiega che il vaccino contro il Sars-Cov-2 era uno dei più avanzati in fase di sviluppo. E fra i pochi arrivati all’ultima fase dei test, come AstraZeneca, Moderna Inc. e Pfizer Inc. I dirigenti della società statunitense avevano dichiarato che la sperimentazione di fase 3 avrebbe dato risultati entro la fine del 2020. Da lunedì scorso però è tutto fermo
“La malattia del partecipante ai test clinici è oggetto di valutazione da parte del Consiglio indipendente per il monitoraggio della sicurezza dei dati (Dsmb) e dal nostro personale interno” ha dichiarato ancora l’azienda in un comunicato, riportato dal “Corriere della Sera”. “Eventi avversi, come malattia o incidenti, anche seri rientrano ogni studio clinico, soprattutto se di larga scala”.
Dov’è la cura con il plasma iperimmune?
Il plasma iperimmune è stato uno dei protagonisti principali dell’emergenza coronavirus. Proprio le sperimentazioni di Mantova e Pavia avevano prodotto più di qualche aspettativa tra molti cittadini. L’Italia ha avuto la sensazione di aver trovato almeno un tampone in grado di migliorare i quadri clinici di alcuni soggetti interessati dal covid.
Il “caso” De Donno
A maggio del 2020 il professor Giuseppe De Donno aveva spiegato a Il Giornale quale fosse il meccanismo della terapia: “Il donatore, che è un paziente guarito da malattia da coronavirus, in uno stato più o meno grave, dona 600 ml di plasma. Cosa vuol dire? Vuol dire che il paziente dona 600 ml di sangue. Noi restituiamo globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, ma tratteniamo la parte liquida del sangue, ossia il plasma che al suo interno ha, oltre ad alcune sostanze anti-infiammatorie, anche gli anticorpi che il guarito ha sviluppato contro il coronavirus”. Gli anticorpi sono trasferiti nel corpo del malato, che ha così qualche strumento in più per reagire agli effetti del Sars-Cov2.
Lo pneumologo di Mantova ha utilizzato questo trattamento in funzione ed in favore di persone che avevano contratto il Covid-19. Qual è, ad oggi, lo stato degli studi su questa tipologia di terapia? Una delle ultime risultanze era comparsa su Haematologica, una rivista scientifica. Il testo, firmato pure da De Donno, sosteneva una riduzione del tasso di mortalità assoluta pari al 9% dei pazienti.
Le evidenze scientifiche
Il divulgatore scientifico Gianluca Pistore dice che “Il dibattito sul plasma iperimmune va condotto solo guardando le evidenze scientifiche. E queste al momento non ci dicono che sia miracoloso, né che sia inutile”. “Uno dei migliori studi (questo) a riguardo è stato effettuato su un campione di 464 pazienti suddivisi in due gruppi. Ad un gruppo sono stati dati i migliori farmaci e il plasma iperimmune, mentre l’altro ha usufruito solo dei migliori farmaci, e niente plasma”.
L’esito è che “Nel gruppo col plasma si sono registrati 34 decessi, in quello senza plasma 31. Sostanzialmente non si vedono differenze ascrivibili alla terapia col plasma. Ma non corriamo alle facili conclusioni: nel somministrare il plasma non si è dosata la quantità di anticorpi neutralizzanti: si è semplicemente somministrato il plasma di persone guarite, che dunque non sembra essere risolutiva, mentre rimane aperta la possibilità di selezionare dai pazienti guariti chi ha una notevole quantità di anticorpi neutralizzanti, il che però richiede un aumento di costi e di lavoro”.