Alla fine il coronavirus porta il premier Giuseppe Conte in tribunale. Al momento, però, il premier è stato coinvolto solo come persona informata dei fatti. A essere sentiti anche il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, il ministro della Salute, Roberto Speranza e, a seguire, il direttore dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il consulente del governo, Walter Ricciardi.
L’inchiesta
I magistrati della procura di Bergamo (pool guidato dal pm Maria Cristina Rota) a partire da oggi ascolteranno tutti. Il focus dell’inchiesta bergamasca – con l’epidemia colposa come ipotesi di reato – è la mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Che, a differenza delle misure adottate a Vo’ Euganeo e Codogno, non è stato isolato alla fine di febbraio ma solo l’8 marzo, con tutta la Lombardia. Un ritardo che ha permesso la circolazione del virus e, dunque, l’aumento del numero delle vittime.
Nelle scorse settimane erano già stati sentiti in procura a Bergamo il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, e l’assessore alla Sanità, Giulio Gallera. “Spettava al governo istituire la zona rossa” hanno dichiarato i due politici. Zona rossa che i vertici regionali avevano chiesto espressamente a Roma di disporre.
Conte: “sono sereno”
“Non sono preoccupato. Ho l’atteggiamento sereno di chi ha agito in coscienza”, ha detto Conte. “Ben vengano le indagini, i cittadini hanno il diritto di sapere”. La notizia che, dopo Gallera e Fontana, la pm Maria Cristina Rota stava calendarizzando anche le audizioni di Conte, Lamorgese e Speranza, girava da giorni. L’istituzione della zona rossa nella bergamasca, “da quel che ci risulta” avrebbe dovuto essere “una decisione del governo”, aveva detto Rota.
Chi doveva decidere?
Avrebbero dovuto agire sia il governo nazionale sia quello regionale. Ad ammetterlo, facendo una sorta di marcia indietro, l’assessore Gallera. “In quella fase ci eravamo sempre relazionati con il governo e con l’Iss”, ma – ha riferito in procura -, “ho verificato, tempo dopo, che anche la Regione avrebbe potuto procedere alla chiusura di sua iniziativa”. Da parte sua il premier Conte, sul punto, ha sempre ribadito che “se la Lombardia avesse voluto, avrebbe potuto fare di Alzano e Nembro zona rossa” visto che “le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti”.
È un fatto che già il 3 marzo Regione Lombardia abbia chiesto a Roma, tramite l’Iss, di chiudere la Bergamasca e in particolare il focolaio dei due Comuni. E il 5 marzo, per voce del presidente Brusaferro, l’Iss, sulla base dei “dati in possesso”, sollecita il governo a procedere.
Quei giorni dal 3 al 6 marzo
“In quattro giorni, dal 28 febbraio al 2 marzo, si passa da 888 a 2.036 malati. I morti raddoppiano, arrivando a 52. Milano prova a non fermarsi. Lo stesso fa il resto dell’Italia.” Così ricostruisce quei giorni Repubblica. “La mattina del 2 marzo, Roberto Speranza fa un giro di telefonate. Parla con Giuseppe Conte, con i capi delegazione della maggioranza. A tutti dice: ‘La mia opinione è che bisognerebbe chiudere’. Tutto? Tutto, come raccomanda il Comitato tecnico scientifico, che il ministro considera l’unica voce autorevole nell’emergenza.”
La “zona rossa”
Nel Governo si inizia a ragionare di “zona rossa”, ma nessun propone la chiusura delle attività produttive perché “le pressioni per restare aperti erano fortissime”. Bankitalia, in quelle ore, prevede che l’epidemia costerà un calo del Pil a due cifre.
Sullo sfondo c’è Confindustria. C’è il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. C’è il Pd. “Interveniamo – è la linea -, mettiamo in sicurezza le aree più colpite, ma non fermiamo la produzione industriale”. La continuità produttiva è un’ossessione.
La fotografia dei dati epidemiologici del 2 marzo parla da sola: in Lombardia 1.254 positivi, 478 ricoverati, 127 pazienti in Terapia intensiva, 38 morti su 52 registrati in tutta Italia; in Veneto, Treviso e Venezia, 291 casi di positività, 17 ricoverati in Terapia intensiva, migliaia di tamponi effettuati.
La federazione lombarda dell’Ordine dei medici fisserà in sette punti le colpe di Fontana e Gallera.
“La mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia, dovuta alla scelta di sottoporre a tampone solo i pazienti ricoverati”, ad esempio. L’incertezza nella chiusura delle aree a rischio. La mancata fornitura di mascherine ai medici del territorio e al personale sanitario. “La pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica, come l’isolamento dei contatti dei soggetti risultati positivi”. E il mancato governo del territorio che ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri.
Conte, intanto, dà mandato al suo ministro di avviare una selezione delle attività essenziali.
Patuanelli e la sua vice Alessia Morani lavorano giorno e notte ai “codici Ateco”, quelli che serviranno il 22 marzo a chiudere l’intero sistema produttivo non essenziale. Il 3 marzo, dopo dieci ore di riunione a Palazzo Chigi, l’esecutivo annuncia la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Conte, seppur contrario, alla fine si arrende.
Altri due piccoli centri avevano “fatto registrare oltre 20 casi, ritenuti con molta probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione”. Per questo, il Cts propone di estendere anche a quelle aree le misure proprie del regime di “zona rossa”, “al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue”. Sempre il comitato “si riservava un continuo monitoraggio della situazione epidemiologica nelle grandi città”.
Palazzo Chigi: “situazione critica”
Per Palazzo Chigi, “il quadro epidemiologico dei giorni 3 e 4 marzo restituiva una situazione ormai critica in diverse aree della Regione Lombardia (…). Il contagio era ormai esteso nel territorio lombardo: al 3 marzo, a Bergamo risultavano 33 casi; a Lodi, 38; a Cremona, già 76; a Crema, 27; nel Comune di Zogno, 23; nel Comune di Soresina e in quello di Maleo, 19, e comunque in molti altri comuni della Lombardia si registravano numerosi casi di Covid-19”.
La decisione da prendere è se limitare la zona rossa “a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso in buona parte della Lombardia (oltreché di altre aree limitrofe), estendere il regime della “zona rossa” all’intera regione e alle altre aree interessate”.
Il Governo prende tempo chiedendo un supplemento di istruttoria al Comitato tecnico scientifico.
E, soltanto nella “tarda serata di giovedì 5 marzo”, si legge ancora nel memo di Palazzo Chigi, “il presidente dell’Istituto superiore di sanità, professor Brusaferro, rispondeva con una nota scritta nella quale segnalava che, pur riscontrandosi un trend simile ad altri comuni della regione, i dati in possesso (l’incidenza di nuovi casi e il loro incremento, nonché la stretta vicinanza a una città) rendevano opportuna l’adozione di un provvedimento volto a inserire i Comuni di Alzano Lombardo e di Nembro nella cosiddetta zona rossa”.
La riunione del 6 marzo
Ma non accade. Nella riunione del 6 marzo presso la sede della Protezione civile sono presenti Conte, i 20 componenti del Comitato tecnico scientifico e il ministro Speranza. “In quella sede – annota ancora il memo interno di Palazzo Chigi – maturava l’orientamento di superare la distinzione tra ‘zona rossa’, ‘zona arancione’ e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedesse la distinzione del territorio nazionale in due sole aree: da una parte, l’intero territorio lombardo, oltre alle Province di altre regioni, alle quali venivano riservate misure di massimo rigore (“zona rossa”); dall’altra, la restante parte del territorio nazionale, al quale si applicavano misure di contenimento meno rigorose”.
Non serviva più definire Alzano Lombardo e Nembro “zona rossa”, è la tesi di Palazzo Chigi, perché il nuovo regime doveva essere esteso all’intera Lombardia.
6 marzo 2020
Nella hall dell’Hotel Continental a Osio di Sotto, racconta ancora Repubblica, il tempo sembra congelato. I militari del III Battaglione Lombardia dell’Arma dei carabinieri saliti da Milano, e quelli arrivati da Veneto, Piemonte, Toscana, attendono ordini. Quasi 400 uomini – carabinieri, polizia, guardia di finanza, esercito – sono stati mobilitati dal giorno prima – alert partito da Roma – per chiudere Alzano Lombardo e Nembro. I due paesi focolaio della Valle Seriana. “Cessata esigenza”, comunicheranno gli ufficiali al momento del ripiegamento. Le 120 ore che vanno da giovedì 5 marzo a lunedì 9 marzo 2020 avrebbero forse potuto deviare la corsa della peste, limitare la conta dei morti nella Wuhan italiana.
Il primo ricovero Covid all’ospedale Papa Giovanni XXIII era del 21 febbraio, lo stesso giorno della scoperta del paziente uno, Mattia.
Il 5 marzo Roma comunica a Bergamo l’alert per la zona rossa. Il piano prevede la chiusura di tutti i varchi di accesso ai due paesi, attraversati dalla strada provinciale 35. Il blocco deve essere assicurato da pattuglie e personale. Nei punti dove è rischioso chiudere con le auto, si dovrà provvede con segnaletica stradale e “jersey”. Sono i blocchi di cemento armato e sono già pronti, forniti dalla Provincia di Bergamo.
“Dovevano dividerci in piccole squadre da tre uomini – racconta la fonte 1 -. E disporci sul territorio agli ingressi di Alzano e Nembro (tra i due paesi, su un asse di 10 km, c’è anche Villa di Serio, dove abitava Ernesto Ravelli, il primo bergamasco morto per Covid, ndr). Alle 21.30, dopo una giornata di attesa, non arrivando disposizioni, ci dicono di rientrare. Ognuno nelle proprie caserme. Ma ci ordinano di restare pronti, eventualmente, per la mattina dopo”.
Perché non hanno ancora chiuso Alzano e Nembro vista l’impressionante impennata dei contagi e dei decessi? “Informalmente avevamo appreso che forse, per evitare disagi nella circolazione, e anche nelle abitudini della gente, e può darsi per via dei trasporti legati alle attività produttive, si voleva procedere con la chiusura o il sabato o la domenica. Possibilmente di notte, quando il traffico è molto ridotto. E invece, niente… Né sabato, né domenica”, ricorda un’altra fonte.
A Bergamo e nelle valli si continuerà a morire.
C’è chi pensa che il Governo abbia tutto l’interesse a mettere la Regione Lombardia sul banco degli imputati. Il caos, in. quei giorni, ha travolto le corsie degli ospedali, a cui non bastavano i posti letto, i respiratori nelle terapie intensive, i dispositivi di protezione individuale (Dpi). Certo è che il governo ha procrastinato decisioni che avrebbero dovuto essere prese in tempo zero.
L’Istituto superiore di sanità sapeva
Chi avrebbe dovuto decidere, lo ha fatto con un ritardo spaventoso. L‘Istituto superiore di sanità sapeva dei rischi che si stavano correndo nei Comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi. In quelle ore anche la Regione Lombardia faceva la sua parte chiedendo a Palazzo Chigi misure più stringenti. “C’è un nuovo focolaio a Bergamo”. L’indomani anche il Comitato tecnico scientifico, come riportato dal Corriere della Sera, arrivava alla stessa conclusione: “I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti.
Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre venti casi, con molte probabilità ascivibili ad un’unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio”. Le telefonate tra Roma e Milano erano incessanti. Ma a Palazzo Chigi ancora non si convinceva a chiudere tutto. Dai tecnici voleva “ulteriori elementi per decidere se estendere la zona rossa” ai Comuni-focolaio del Bergamasco.
Durante un estenuante braccio di ferro con un’altra Regione, le Marche, era stato lo stesso governo a intimare i governatori a non fare di testa loro. Si arrivava da giorni dove la tensione (politica) era salita alle stelle, soprattutto con il Veneto che aveva deciso di strappare e di andare per la propria strada contravvenendo alle regole stilate dal ministero della Salute sui tamponi. L’idea di Conte, poi, era di non istituire altre “zone rosse”. In presenza di un contagio ormai tanto diffuso, preferiva l’idea di chiudere tutta la Lombardia e le aree limitrofe che erano state attaccate dal virus. Alla fine, però, aveva deciso di non battere nemmeno questa soluzione.
Un ritardo colpevole
Il premier aveva rotto gli indugi nella notte tra il 7 e l’8 marzo. Una conferenza stampa che passerà alla storia: un decreto pasticciato fino all’ultimo, la fuga di notizie, la corsa alle stazioni ferroviarie per salire sull’ultimo treno verso il Sud Italia e il mancato dialogo con il territorio. Tutta la Lombardia, insieme ad altre quattordici province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, diventava “zona rossa”. Nessuno poteva più entrare e uscire. Ora si tratta di capire il perché di un ritardo tanto colossale. In molti hanno puntato il dito contro Confindustria.