Qualche giorno fa Jean Pierre Mustier, Presidente della Federazione Bancaria Europea, aveva chiesto l’applicazione di un costo per tutti i conti che avessero superato i 100 mila euro. La seconda versione parla del coinvolgimento dei soli conti correnti con saldi oltre il milione di euro.
In questa querelle tra il mondo del risparmio e Mustier si è inserita anche Banca Intesa. Gross Pietro, presidente del Consiglio d’amministrazione di Intesa, dice che “Noi non applicheremo i tassi negativi ai conti correnti di casa nostra”. Gross-Pietro ha fatto intendere che il peso di detenere masse così importanti sui conti correnti è difficilmente sostenibile da parte di buona parte del sistema bancario invitando i correntisti a fare scelte di investimento diverse.
In sintesi: o investite o vi tassiamo.
Senza fare sterili polemiche cerchiamo di capire il motivo per il quale le banche (tutte) invitano i correntisti a scegliere altre forme di deposito o di investimento minacciando, appunto, l’applicazione dei tassi negativi.
Dopo i tanti ribassi determinati dalla Bce e da Draghi, le banche pagano alla Bce un tasso del -0,50%. Al correntista invece le stesse banche garantiscono lo 0%. Facile capire, dunque, come questa differenza di -0,50% pesi sempre di più al crescere delle masse depositate in conto corrente. Se moltiplichiamo questa percentuale per 1400 miliardi di euro (somme oggi depositate in conto corrente nel nostro Paese) si capisce che alle banche italiane il costo di questo “grande conto corrente” è di 7 miliardi di euro l’anno.
È facile immaginare che le banche più grandi come Intesa ed Unicredit siano proprio quelle con maggiori quantità di denaro sui conti correnti. E, oltretutto, più si allungheranno i tempi di applicazione dei tassi negativi, maggiore sarà la sofferenza per il sistema bancario.
Il piano Mustier
Dietro tutta questa operazione c’è qualcosa di più grande nelle intenzioni di Mustier.
- Vendere i gioielli della Corona per fare cassa;
- tagliare pesantemente il personale e cedere a più non posso sofferenze e incagli per pulire il più possibile il bilancio dalle scorie.
I mille giorni di Mustier alla guida di Unicredit hanno portato a ricavi quasi nulli. Mustier ha appena chiuso il blitzkrieg in due tappe della cessione del 35% di Fineco, la regina dell’asset management portando a casa oltre 2 miliardi cash. Nel 2016 concretizzò l’uscita dai gioielli Pekao e da Pioneer. Altri due pezzi pregiati che hanno portato nelle casse di UniCredit un bottino di 7,4 miliardi. In fondo, dopo oltre 4 aumenti di capitale e perdite cumulate dal 2008 per oltre 20 miliardi, la banca tornava a incassare denaro anziché chiederlo ai suoi stremati soci.
Il suo obiettivo principe era ridare solidità finanziaria al gruppo, rendere UniCredit una banca di nuovo appetibile per il mercato sul piano della forza patrimoniale.
UniCredit come riporta Moody’s “ha abbassato lo stock di Npl, scesi a 37,6 miliardi di euro del primo trimestre 2019 dal picco del 2014, pari a 84,4 miliardi”. Il tutto condito con un recupero di redditività. Dopo il buco da oltre 11 miliardi del 2016, Mustier è riuscito a riportare in utile la banca con profitti netti cumulati nel biennio 2017-2018 per oltre 9 miliardi.
La banca ha fatto pagare il prezzo più alto ai lavoratori. Solo con il suo piano triennale Transform, Mustier ha già lasciato a casa 14.700 dipendenti con 950 sportelli chiusi a livello globale.
La banca ha oggi un rapporto tra costi e ricavi poco sopra il 50%, un livello quasi di eccellenza non solo in Italia ma anche in Europa. Non c’è nessuno squilibrio sul lato ricavi-costi.
Il risultato di gestione industriale è stato ottenuto dai vari Mustier, Ghizzoni e predecessori grazie al taglio dei costi, mentre i ricavi calavano. Solo negli ultimi 6 anni i costi operativi sono scesi di oltre 4 miliardi.
Il governo italiano che bastona i contribuenti
Sembrerebbe, dunque, che parte della Manovra voluta dall’attuale governo in parte ricalchi le scelte delle banche. Se da un lato gli istituti di credito tassano i clienti, il governo italiano pensa a come recuperare fondi per il bilancio disastroso in cui versa.
Quindi, prima di erogare i crediti fiscali, soprattutto quelli previsti del 730, lo Stato ‘preleverà’ quanto gli spetta se il contribuente ha dei debiti con il fisco, superiori a 100 euro, già diventati cartelle. A prevederlo sempre la bozza del decreto fiscale collegato alla manovra. La norma prevede, in sostanza, che i crediti d’imposta diventino una sorta di ‘bancomat’, utili prima di tutto a sanare i debito col fisco già notificati dall’agente della riscossione, a meno che non sia una sospensione o non sia già stato avviato un piano di rateazione. Con questa norma lo Stato conta di recuperare oltre 400 milioni l’anno.