Una famiglia colpita e affondata dal metodo giudiziario. Oggi, dopo aver vinto le cause, la famiglia Cavallotti gioisce a metà: lo Stato gli ha riconsegnato le chiavi delle aziende. Ma solo con i debiti.
“Mio padre, dopo dodici anni di calvario giudiziario, è stato assolto con formula piena dall’accusa di mafia. La sentenza di assoluzione dà atto che nessuno dei collaboratori di giustizia sentiti nel processo lo conosceva o sapeva chi fosse. La sentenza di assoluzione ha sancito che le imprese Cavallotti non sono mai state favorite dalla mafia dalla quale, invece, sono state ostacolate e vessate. Questa sentenza non è valsa ad evitare il decreto di confisca che si basa su fatti che nel processo penale sono stati ritenuti insussistenti. Sembra un assurdo ma è così.”
Il racconto di Pietro
A raccontare la vicenda è Pietro Cavallotti, imprenditore della nuova generazione della famiglia. Una vicenda giudiziaria che s’intreccia proprio con il cosiddetto “sistema Saguto”. Silvana Saguto è stata travolta dallo scandalo sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia scoppiato nel 2015. Il giudice era accusata di “aver usato la sua posizione di magistrato per conseguire vantaggi ingiusti”. La Cassazione ha ritenuto legittima la rimozione dall’ordine giudiziario inflitta dal Consiglio superiore della magistratura e su cui l’ormai ex magistrato Silvana Saguto aveva fatto ricorso sul verdetto pronunciato nel 2018 dalla disciplinare di palazzo dei Marescialli che l’aveva condannata alla massima sanzione prevista dall’ordinamento.
Zone d’Ombra Tv parlò della vicenda prima che scoppiasse lo scandalo.
La posizione dell’ex magistrato, intanto, continua ad aggravarsi. È notizia di queste ore che il Pm di Caltanisetta, Maurizio Bonaccorso, chiederà l’assoluzione di Aulo Gigante, amministratore giudiziario delle imprese Niceta accusato di corruzione in concorso. Con questa mossa la mentre la Saguto si trova ora a rispondere, per i fatti che riguardano Gigante, di concussione anziché di corruzione.
L’intercettazione
L’episodio che riguarda la Saguto e l’ex amministratore giudiziario Gigante è nata in seguito a una intercettazione ambientale effettuata nell’ufficio del magistrato. L’imputata aveva invitato l’avvocato Gigante a sostituire un collaboratore con un altro da lei suggerito. Sostituzione che però non fu mai fatta.
La vicenda Cavallotti
Le conseguenze del sistema di prevenzione hanno generato conseguenze sia sul piano processuale ma anche e soprattutto sul piano economico. Infatti sono moltissime le imprese che, poste sotto amministrazione giudiziaria, sono fallite lasciando a casa centinaia di lavoratori. Esempio lampante quello della famiglia di Gaetano Cavallotti, prosciolto ma confiscato, che ha atteso per anni la restituzione del patrimonio. I capostipiti della generazione di imprenditori furono arrestati nel 1998, nell’operazione Grande oriente. Dopo varie vicissitudini processuali, i tre furono assolti a fine 2010. I loro nomi erano stati trovati in alcuni pizzini passati per le mani di Bernardo Provenzano. Il giudice di primo grado disse che i Cavallotti erano stati, invece, vittime del racket. Nell’assoluzione successiva, dopo il rinvio della Cassazione, il giudice sostenne che non era possibile accertare responsabilità degli imputati in quanto citati nei pizzini soltanto genericamente.
Il dissequestro
“È appena arrivato il decreto che aspettavamo. Hanno dissequestrato tutto! Le aziende di noi figli sono state dissequestrate. Adesso aspettiamo la decisione sulla revoca delle aziende dei padri“. L’annuncio di Pietro Cavallotti arriva il 6 maggio di quest’anno. Pietro è uno degli eredi della famiglia di imprenditori i cui beni furono confiscati nonostante l’assoluzione dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e la prescrizione del reato di turbativa d’asta dei tre fratelli Vincenzo, Salvatore Vito e Gaetano Cavallotti.
“Vittime di mafia e non complici”
“La mia famiglia è stata assolta dal reato di associazione mafiosa perché addirittura ritenuto ‘vittima della mafia’ e non complice” ha raccontato Pietro in un’intervista a Sicilia opinione. “La vicenda giudiziaria della mia famiglia è cominciata nel 1998, quando avevo otto anni” spiega. “Posso dire che le misure di prevenzione mi hanno accompagnato per gran parte della mia vita, vissuta tra Tribunali, Procure, giudici, avvocati e indicibili sofferenze. Mio padre ha subito ingiustamente tutte le violazioni della libertà personale e del diritto di proprietà che lo Stato può infliggere a un cittadino. È stato per due anni e mezzo in carcere salvo poi essere assolto. Ha subito otto mesi di arresti domiciliari, la sorveglianza speciale per due anni e mezzo e la confisca di tutto il patrimonio. Sono tutte misure che incidono in maniera devastante sulla vita non solo della persona ma anche della sua famiglia. Senza dubbio la più dura è il carcere. Ma la sottrazione di tutto il patrimonio, del proprio lavoro, dei mezzi di sostentamento, del frutto dei propri sacrifici e della distruzione del tuo futuro non è una misura meno invasiva. Anzi, è un qualcosa di odioso e insopportabile nella misura in cui colpisce persone innocenti.
La lotta impari con lo Stato
“A mio padre” aggiunge Pietro “è stato imposto di dimostrare il proprio recesso dalla mafia, a fronte di una sentenza di assoluzione piena che ha negato ogni suo legame con malavita organizzata. Come si può provare di essere usciti da una associazione in cui non si è mai entrati? Nei nostri confronti lo stesso Procuratore Generale aveva chiesto alla Corte d’Appello di Palermo di revocare la confisca ritenendo mio padre estraneo a fatti mafia. Questo significa che, secondo l’accusa, nei nostri confronti non vi erano neanche gli indizi. Eppure, ogni nostra eccezione difensiva, fondata e documentata, è stata disattesa dai giudici della sezione misure di prevenzione come se nulla fosse. Abbiamo avuto fin da subito l’impressione che quei giudici fossero intenzionati a incamerare il nostro patrimonio, a negare tutti i diritti della difesa senza curarsi dell’accertamento della verità. I recenti fatti di cronaca che riguardano lo scandalo Saguto rafforzano i nostri sospetti”.
La lettera alla Saguto
“Io qualcosa da dirti ce l’avrei. Ti ho visto per la prima volta in Tribunale. Avevamo udienza alle 9:00 e sei arrivata solo alle 12:00. Ti facevi avanti circondata dalle tue guardie del corpo con il trucco ben fatto e il capello curato nei minimi particolari”. Così Pietro scrive su Facebook dopo che la vicenda Saguto è stata integrata con nuove intercettazioni diffuse dal programma Le Iene.
“Dai tuoi occhi usciva il fuoco dell’arroganza e della superbia. Eri il giudice supremo e tutti gli altri non contavano un cxxo, erano solo carne da macello, numeri da usare per la propaganda dei sequestri e delle confische alla “mafia”, patrimoni da spolpare e opportunità di lavoro per i raccomandati. Ti scocciava venire alle udienze. Infatti, nel momento stesso del sequestro, avevi già deciso di confiscare tutto. Le perizie e i processi servivano solo per prendere tempo e portare avanti il più possibile la mangiatoia. Quando prendevano la parola gli avvocati per spiegare le ragioni dei propri assistiti, facevi i disegnini su un pezzo di carta. Trattavi gli avvocati come se fossero collusi con i loro clienti. Forse eri temuta perché, con una semplice parola, avresti potuto segnare la fine della loro carriera, almeno al Tribunale di Palermo.
Gli imprenditori mafiosi non erano quelli condannati per mafia. Erano coloro che in Sicilia riuscivano a creare lavoro e ricchezza. Tutti questi dovevano essere perseguitati, i loro beni spartiti a persone senza alcuna esperienza o competenza specifica. I lavoratori erano quantomeno complici e meritavano di essere licenziati e sostituiti con le persone di comprovata fiducia. Era inammissibile per te che dei lavoratori umili con la terza media diventassero imprenditori di successo. La giustificazione non poteva che essere la mafia. Voi, invece, con tre lauree e altrettanti master avete distrutto tutto. Noi con l’umiltà, il lavoro e il rispetto degli altri avevamo creato. Ci hai tolto tutto: l’azienda, il lavoro, la casa e la libertà. Nonostante la nostra innocenza fosse scolpita in una sentenza passata in giudicato, hai ritenuto che tutto il nostro patrimonio fosse il frutto di un reato che non esiste. Poi, siccome non eri contenta, hai colpito anche noi figli che stavamo provando con il duro lavoro a riprendere in mano le redini del nostro futuro dopo che tu avevi distrutto il passato della nostra famiglia. E, siccome, attraverso di noi eravate arrivati fino all’Italgas, per salvare la vostra credibilità, avevate deciso di confiscare la nostra azienda, senza neanche avere letto la perizia che voi stessi avevate disposto. Insieme a Licata, ti eri messa d’accordo con il Pubblico Ministero per fare acquisire le “prove” che avrebbero portato alla nostra confisca. Non era questo il tuo compito. Dovevi giudicare con imparzialità e, invece, ti sei messa d’accordo con una delle parti per fottere l’altra. Ti difendi dicendo che non eri sola a fare i sequestri o a dare gli incarichi. Vero. Chi erano gli altri? Fabio Licata, già condannato in primo grado, lo stesso che spiegava nei convegni che le indagini si fanno dopo il sequestro? Lorenzo Chiaramonte, lo stesso che vi segnalava il compagno (o l’amante) al quale il collegio da te presieduto dava gli incarichi di amministratore giudiziario? Fortuna che vi hanno fermati!
Chi è venuto dopo di voi ha letto le carte e ci ha consegnato i debiti fatti dall’amministratore giudiziario che tu e i tuoi colleghi avevate nominato e assecondato in tutte le sue scelte sciagurate. La seconda volta ti ho vista al Tribunale di Caltanissetta, non più nella veste di Dio in terra ma, dopo essere caduta dal Cielo, semplicemente come imputato. Il capello e il trucco erano sempre impeccabili. Schiumavi rabbia come un leone ferito. Non ti rendevi conto di essere tu sotto accusa e ti comportavi come quando eri a capo della Sezione, fino addirittura ad intimidire velatamente e attaccare il Pubblico Ministero che ti accusava. Questa volta ti sei accorta di me e hai fatto finta di niente. Tu non stai provando neanche lontanamente la sofferenza che voi avete fatto provare a tante famiglie. Tu hai la garanzia di un giudice imparziale, non sei stata privata della libertà personale in attesa di un processo penale in cui vale la presunzione di innocenza.
I nostri padri, senza prove, sono stati arrestati e, dopo due anni e mezzo, scarcerati con una pacca sulle spalle. L’assoluzione definitiva sarebbe arrivata solo 12 anni dopo. Per gli stessi fatti li avete crocifissi in un processo farsa in cui vale la presunzione di colpevolezza e, prima di quel processo, gli avete tolto ogni mezzo di sostentamento. Dopo 11 anni, avete confiscato tutto, pur di non ammettere di esservi sbagliati. Spendevate 15 mila euro al mese, fra ristoranti, vestiti alla moda e villa a Mondello per il figlioletto. Avevi una ricca vita sociale e in udienza andavi avendo sempre cura di non fare troppo presto perché tanto la gente poteva aspettare. La vostra principale fonte di reddito erano le amministrazioni giudiziarie. Tuo marito prendeva incarichi ad affidamento diretto perché era una persona affidabile. Noi alle 6 eravamo in cantiere a buttare il sangue e il sudore insieme agli operai sotto il sole oppure al gelo, si risparmiava per rientrare nei conti, si mangiava un pezzo di pane sul marciapiede o sopra i mezzi d’opera e la sera eravamo a tal punto stanchi che non potevamo fare altro che andare a letto, talvolta senza neanche mangiare. I lavori si prendevano, quando capitava, solo dietro gara di appalto, senza raccomandazioni e nel rispetto della legalità. Altro che festini e uscite con gli amici. Per noi non c’erano fragole con la panna, dolcetti da Costa, uscite con le amiche sull’auto blindata o aperitivi pomeridiani con il Prefetto. C’era solo la polvere e la terra del cantiere e la responsabilità di portare avanti un lavoro con tutte le difficoltà del mondo, per rispettare le scadenze del committente, per onorare gli impegni coi fornitori, per la nostra sopravvivenza e per quella dei nostri collaboratori. I tuoi figli facevano la bella vita, spendevano a destra e a sinistra. E noi, appena finita la scuola, fin da piccoli andavamo a uscire la terra dal fosso e queste erano le nostre vacanze perché c’era bisogno di lavorare. Così si capisce il valore dei soldi e dei sacrifici. Ma di tutte queste cose voi che cosa ne sapete? Ora, dopo 60 anni di lavoro, ci ritroviamo senza una casa e siamo ridotti a fare i conti dei contributi versati per capire se i padri hanno il diritto di andare in pensione. Quale mafia hai combattuto? Sapevi dove la mafia vera aveva nascosto i beni e, per paura, noi sei intervenuta. Meglio colpire il Cavallotti di turno che tanto mafioso non è e che non si potrà mai rivalere con la violenza. Tu sei madre, moglie e figlia. Come hai potuto infliggere tutte queste sofferenze a centinaia di figli, di mamme e di mogli? Ti vedo ora in televisione, invecchiata di almeno dieci anni, con il volto sciupato, sofferente e trascurato. Sei diventata il parafulmine. Attaccano te per difendere un sistema che non hai creato tu e al quale la stampa ha dato il tuo nome solo per nascondere una verità sconcertante che potrebbe rimettere in discussione trent’anni di misure di prevenzione. Le persone che venivano da te a chiederti i favori ti hanno rinnegata. Ti chiamavano “regina” e ti trattavano come tale. E, come quando cadono i peggiori regimi, tutti coloro che prima ne avevano tratto vantaggio, si dileguano. Eppure, nonostante tutto, non provo nessuna soddisfazione o piacere. Provo solo compassione. Tu potrai vincere tutti i processi ma hai già perso qualcosa di più importante, qualcosa che, forse, non hai mai avuto: il rispetto della dignità inviolabile delle persone. Per quanto mi riguarda, noi abbiamo vinto come uomini nella misura in cui non ci siamo mai arresi, nella misura in cui abbiamo trovato la forza di rialzarci e di non mollare dopo che voi ci avevate spezzato le gambe. Continueremo a difenderci e, se i giudici italiani non avranno il coraggio di ammettere gli errori commessi, lo farà la Corte Europea. Quando questo avverrà – perché avverrà – sarà una grande gioia per tutti coloro che credono nella giustizia senza vederla e una immensa vergogna per quello Stato sordo e cieco che continua a coprire gli abusi commessi da qualcuno nel nome della lotta alla “mafia”.
Ora Pietro attende la decisione della Corte Europea che ha già ritenuto ammissibile il ricorso. Sulla base di nuove prove i Cavallotti hanno chiesto al Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione, di revocare la confisca. Confidiamo nel pieno riconoscimento delle nostre ragioni.