Il nome di Camillo Romandini è uno di quelli forti. Pesante. Camillo Romandini è il giudice che ha sentenziato sulla mega discarica di Bussi sul Tirino (Pe) che assolse in primo grado 19 imputati.
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Dopo quella vicenda Romandini subì un po’ di attenzioni e, addirittura, l’interessamento del Csm e dell’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Nonostante la “discesa in campo” dei poteri forti Romandini fu rimosso dalla Corte d’Assise di Chieti e messo sulla poltrona della Corte d’Appello di Roma. Un premio insomma.
Eppure Romandini la combinò grossa.
Il cuore del procedimento disciplinare a carico del magistrato riguardò vicende legate al processo sulla mega discarica Montedison di Bussi. Quel processo celebrato a Chieti in primo grado si concluse con l’assoluzione di 19 imputati dal reato di aver avvelenato le falde acquifere, mentre il reato di disastro ambientale venne derubricato in colposo e, quindi, prescritto. Una sentenza che venne, ovviamente, ribaltata in appello: all’Aquila fu riconosciuto l’avvelenamento colposo delle falde, seppure prescritto, e ci fu la condanna di dieci imputati per disastro colposo. Il giudice Romandini fu condannato per via di una cena. Romandini, tre giorni prima della sentenza, partecipò a una cena con gli altri giudici popolari. A loro, secondo l’accusa, avrebbe “paventato infondatamente” le conseguenze dell’eventuale condanna degli imputati per disastro ambientale doloso invece che per disastro ambientale colposo, anche “mistificando gli effetti della normativa sulla responsabilità civile dei magistrati”.
Le 5 ore in cui si decise che “nessun colpevole”
Cinque ore durò la Camera di Consiglio della Corte d’Assise di Chieti che emise la sentenza. Il dispositivo fu riassunto in sei righe:
“Visti gli articoli 442 e 530 CPP assolve gli imputati dal reato loro ascritto A ‘avvelenamento acque’ perché il fatto non sussiste. Visti gli articoli 521 e 531 CPP previa derubricazione del reato contestato B (disastro ambientale doloso) in quello di disastro colposo ex art.449 CP dichiara di non doversi procedere nei confronti degli imputati per intervenuta prescrizione”.
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Legnini, l’ex numero 2 del Csm
Probabilmente, a sapere in anticipo come sarebbe finito il processo sarebbe stato anche Giovanni Legnini, allora vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Non solo, quindi, Cristina Gerardis dell’avvocatura dello Stato, i pm Bellelli e Mantini e il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, ma anche l’altissima carica dello Stato. A indagare sulla vicenda fu la Procura di Campobasso che ascoltò per sette ore sia i due pm che la Gerardis. I giudici molisani cercarono di capire se ci furono pressioni sui giudici popolari da parte di Romandini. La fuga di notizie sulla sentenza ci sarebbe stata il 4 dicembre del 2014 quando un esponente delle istituzioni informò dell’imminente assoluzione gli imputati.
In quella data ci fu un incontro tra pm, un agente della forestale, avvocati di tutte le parti civili e dell’avvocatura dello Stato. Dieci testimoni avrebbero sentito dire da uno dei pm:“si va verso l’assoluzione”. “Circolano 3 milioni di euro per la sentenza del processo Bussi. Me lo ha detto Luciano D’Alfonso” disse l’avvocata dello Stato Cristina Gerardis a cena dinanzi a parecchi testimoni. E sono proprio i testimoni a raccontarlo. Mancavano 15 giorni all’ultima udienza, quella che assolse 19 ex dirigenti Montedison dall’accusa più grave, l’avvelenamento delle acque, e derubricò da doloso a colposo il reato di disastro ambientale, consentendo loro di accedere alla prescrizione.
Il ministero della Giustizia contro Romandini
Nei confronti di Romandini intervenne anche il Ministero di Grazia e Giustizia che aprì un procedimento disciplinare sulla base di presunte pressioni sui giudici popolari nel processo di Chieti. Un fascicolo presso la Procura di Campobasso, conclusosi con l’archiviazione nei confronti del giudice ma con il successivo invio del fascicolo presso gli organi superiori.
Romandini, giudice imprenditore
Ma su Camillo Romandini si abbatte un’altra accusa. La Guardia di Finanza scopre che il giudice – lo ricordiamo presidente Corte d’Assise di Chieti – beneficiò di 46mila euro di contributi concessigli dalla Regione Abruzzo.
“In un recente passato – scrive la Guardia di Finanza – Romandini è stato titolare dell’omonima impresa individuale agricola poi cessata a giugno 2015 e che dal 2004 al 2015 ha avuto aiuti pubblici per 46.000 €”. Per le fiamme gialle si tratta di “una indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Ma soprattutto a livello disciplinare è chiaro che un giudice non può essere titolare di impresa”.
Un fatto gravissimo che attivò anche la politica. “Il dottor Camillo Romandini – spiegava il senatore Gianluca Castaldi in un’interrogazione parlamentare nel 2015 – sarebbe titolare di una ditta individuale, con codice ATECO 01135 ‘Colture miste viticole, olivicole, frutticole’, che ha ricevuto fino al 2015 contributi statali attraverso il sistema AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura), istituito con decreto legislativo n. 165 del 1999 per lo svolgimento delle funzioni di organismo di coordinamento e di organismo pagatore”. Insomma, Romandini avviò una sua impresa nonostante il Csm, già nel 2007, chiarì con una delibera l’articolo 16 dell’ordinamento giudiziario che fa divieto per i giudici di “esercitare industrie e commerci”. Dunque, Romandini non poteva avere una ditta né tantomeno percepire contributi pubblici.
L’azione disciplinare
La giustizia fa il suo corso e il Procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, promuove nei suoi confronti l’azione disciplinare. Per Ciccolo il magistrato avrebbe infatti svolto attività incompatibili con la funzione giudiziaria “consistenti nell’esercitare una impresa individuale a proprio nome, iscritta nel registro delle imprese di Pescara, della quale provvedeva a chiedere per via telematica la cancellazione solo a luglio del 2015, dopo la richiesta di chiarimenti che gli era pervenuta dal Presidente del Tribunale”. Sempre nel 2015 Romandini viene attenzionato dal Procuratore generale di Campobasso, Maurizio Grigo, che aveva scritto al capo della locale procura molisana di “essere notiziato” sullo stato del procedimento, questa volta penale aperto a carico del magistrato. Una sollecitazione formulata “per aderire alla richiesta formulata dall’Ispettorato generale presso il ministero della Giustizia”. La risposta del procuratore di Campobasso, Armando D’Alterio, non si fece attendere che pochi giorni.
L’informativa
Con un’informativa del 30 ottobre indirizzata anche al ministero della Giustizia, al Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione e anche al presidente della Corte di Appello dell’Aquila, si informava dell’intenzione di chiudere le indagini preliminari entro dicembre dello stesso anno, cosa che puntualmente avvenne. Ma anche di aver già proceduto “all’acquisizione dei verbali di udienza, della sentenza e degli appelli proposti”. Il procuratore di Campobasso D’Alterio diede inoltre conto di aver sentito a sommarie informazioni venti testimoni e di aver proceduto all’interrogatorio dell’indagato. Ma di aver anche acquisito diverse informative di polizia giudiziaria. E di aver emesso un decreto di acquisizione di “tabulati telefonici e n. 8 decreti di acquisizione di documentazione bancaria” per le voci su un pagamento di danaro raccolte durante l’indagine condotta a Campobasso.
La sentenza
Nel 2018 per Romandini arriva la sentenza. I giudici della Sezione disciplinare del Csm gli fanno perdere due mesi di anzianità sia per aver svolto un’attività imprenditoriale, incompatibile con la sua attività di magistrato, sia per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei giudici popolari del processo di primo grado sulla discarica Bussi, di cui lui era presidente.
Romandini non molla l’impresa: ancora iscritto nel 2019
Come se nulla fosse il giudice-imprenditore continua la sua carriera. Il consigliere presso la Corte d’appello di Roma, infatti, dopo essere stato giudice al tribunale civile di Chieti, rimane iscritto sul Registro delle imprese agricole come socio (ben al 43,3%) dell’azienda “Eredi Giannico Michelina, società agricola a.r.l.” come testimonia la più recente visura catastale. In un’ulteriore interrogazione del 20 novembre 2020 la deputata Daniela Torto spiegava all’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, quanto segue:
“Premesso che: il dottor Camillo Romandini, consigliere presso la Corte di appello di Roma e già magistrato presso il tribunale civile di Chieti, risulta essere iscritto nel registro delle imprese come socio al 43,3 per cento dell’azienda agricola denominata ‘EREDI GIANNICO MICHELINA soc. agricola A.R.L.’, come da visura camerale del 20 ottobre 2019; il regio decreto del 30 gennaio 1941, n. 12, riguardante l’ordinamento giudiziario, all’articolo 16, cristallizza le incompatibilità di funzioni dei giudici, vietando loro, expressis verbis, l’esercizio di industrie o commerci; durante la XVII legislatura sono state presentate due interrogazioni parlamentari a risposta scritta da parte del senatore Gianluca Castaldi – n. 4-08366 del 15 novembre 2017 e n. 4-08296 del 24 ottobre 2017 – riferite all’esercizio di attività imprenditoriale da parte del dottor Romandini, in spregio al divieto sancito dalle norme sull’ordinamento giudiziario;
nel 2018, la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, comminava al magistrato la sanzione della perdita di due mesi di anzianità sia per aver svolto attività imprenditoriale, sia per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei giudici popolari chiamati a decidere in un processo all’interno del quale rivestiva la funzione di presidente; atteso che il Csm possa autorizzare un magistrato a svolgere incarichi extra giudiziari – ai sensi dell’articolo 64, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916 – di tale autorizzazione, obbligatoriamente, deve darne pubblicità in un albo e informarne il Ministro. In concreto viene mantenuta la distinzione tra le attività liberamente espletabili dal magistrato e quelle a lui radicalmente precluse e quelle esercitabili previa autorizzazione dell’Organo di autogoverno;
consultando il suddetto albo non vi è traccia di alcuna autorizzazione accordata al dottor Romandini, con riguardo alla suddetta attività imprenditoriale; peraltro, il Csm, investito di un caso simile a quello di cui si discorre, nella seduta del 2 maggio 2007, si è espresso in senso negativo rispetto alla possibilità che un giudice eserciti un’attività di impresa e, in particolare, gestisca l’azienda agricola di famiglia. Se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e se intenda promuovere iniziative di competenza, valutando se sussistano i presupposti per promuovere l’azione disciplinare.
Ma il ministro Bonafede non ha mai risposto.
Le nuove carte, il nipote e la società immobiliare
Romandini non finisce di stupire. Zone d’Ombra Tv è venuta in possesso di carte che testimoniano come la famiglia di Romandini faccia impresa. Questa volta immobiliare.
Francesco Turco è attualmente Giudice presso il tribunale civile di Chieti ed è il nipote del giudice Camillo Romandini. Il 9 febbraio del 2018 la società Albavis S.A. con sede in Lussemburgo vende alla società immobiliare denominata “L&F IMMOBILIARE S.R.L.” con sede legale in Francavilla al Mare (CH), due locali commerciali di 160mq e 67mq di proprietà della Cooperativa Luzzatti. Si tratta di un complesso realizzato da Vittorio Mascanzoni composto da edifici bassi dai prospetti semplici. Immobili di prestigio situati in via Emanuele Filiberto.
Bene, per questi immobili sono stati pagati soltanto 545mila euro.
Della L&F IMMOBILIARE S.R.L. fanno parte, dunque, la sorella del giudice Romandini e il nipote, Francesco Turco. Il Il dottor Turco opera nello stesso luogo di competenza in caso di controversie civili, ovvero nel tribunale di Chieti.
Appare quantomeno anomalo che Turco, attualmente Giudice presso il tribunale civile di Chieti, acquisti un immobile sito in Roma da una società anonima con sede legale in Lussemburgo. Ma la cosa che lascia interdetti è l’incompatibilità tra il ruolo di imprenditore e la funzione di Magistrato. La materia dell’incompatibilità nel pubblico impiego è disciplinata dall’art. 53 del d.lgs. 165/2001, che stabilisce l’applicabilità della disciplina sull’incompatibilità di cui agli art. 60 e ss del d.P.R. 3/57 a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, nonché ai dipendenti degli enti locali.
Tale disciplina prevede che l’impiegato pubblico, lo ripetiamo, non possa “esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”.
Di Antonio Del Furbo
antonio.delfurbo@zonedombratv.it