Un vero e proprio tentativo di piazzare i camici rimasti fermi. Si tratta dei famosi 25mila pezzi (della commessa da 75mila) mai inviati alla Regione da parte di Dama, la società di Andrea Dini, cognato di Attilio Fontana.
Camici Regione Lombardia: la tesi di Fontana e del cognato non regge. Dini indicava i “prezzi e le forniture”
L’offerta è stata definita a 9 euro per ciascun camice, contro il prezzo di 6 euro che era stato fatto ad Aria, la centrale acquisti del Pirellone. Una prova, secondo la Procura, che le intenzioni dell’imprenditore erano molto lontane dal desiderio di fare una donazione, visto che la consegna della partita di camici sarebbe stata bloccata solo dopo che Report ha sollevato il caso del conflitto di interessi.
Rinuncia non irrilevante e apparentemente inspiegabile in piena emergenza sanitaria, quando le terapie intensive degli ospedali erano ancora colme di pazienti e nelle case di riposo mancavano i dispositivi di protezione: in quel momento la Regione aveva un fabbisogno giornaliero di circa 50 mila camici.
Il sospetto dei magistrati
Il sospetto degli investigatori, inoltre, è che lo stop sia arrivato come una sorta di risarcimento per la mancata compravendita: sfumato per colpa delle domande scomode l’affare da 513 mila euro, una parte delle spese avrebbe dovuto essere recuperata mettendo sul mercato quei 25 mila pezzi, dando per “persi” i primi 50mila trasformati in donazione. I magistrati sono in grado di provare che la partita residua sia stata messa in vendita tramite un intermediario attivo sul territorio di Varese.
A questa figura spettava il compito di trovare un’acquirente e piazzare i camici per cercare di rientrare delle spese e a lui era anche stata fatta la promessa di una provvigione: il 10 per cento dell’importo ogni mille camici venduti.
“Turbata libertà nel procedimento di libera scelta del contraente”
Questi passaggi – secondo la Procura – fanno valutare ai pm l’ipotesi che ci si trovi di fronte a un altro reato, ovvero quello di frode in pubbliche forniture. Al momento il fascicolo è aperto per “turbata libertà nel procedimento di libera scelta del contraente” e gli indagati sono due: oltre ad Andrea Dini, anche Filippo Bongiovanni ex numero uno di Aria (venerdì ha chiesto di essere assegnato ad altro incarico).
Aria, la centrale acquisti del Pirellone, in quel periodo ha speso 300 milioni di euro per raccogliere sul mercato il maggior numero possibile di dispositivi di protezione.
La procedura prevedeva che la task force si occupasse delle certificazioni e solo in un secondo momento i privati si sarebbero potuti interfacciare con i dipendenti di Aria. Una volta finalizzato l’accordo con Dama però, sarebbe stata la stessa struttura guidata da Bongiovanni a rendersi conto che tra i fornitori c’era anche la società del cognato di Fontana: così la notizia sarebbe stata riportata subito al livello politico. Dopo sono arrivate le domande di Report.