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Buccinasco: da capoluogo della ’ndrangheta al Nord a cassaforte dei segreti della Quinta mafia.

Buccinasco: da capoluogo della ’ndrangheta al Nord a cassaforte dei segreti della Quinta mafia.

Un salto di qualità quello di Buccinasco che continua a vivere un momento particolare. Dopo anni il risveglio di 'faide' per il controllo del territorio

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Un patto lombardo che dalla prima Repubblica a oggi permette a decine di complici e collusi di godersi la vecchiaia in libertà. Come riporta L’Espresso alcuni collaboratori di giustizia lo hanno definito “il Consorzio”. Una cooperazione, cominciata durante la guerra fredda italiana e gli anni del terrorismo, che riunisce organizzazioni mafiose, apparati deviati dell’intelligence, eversione di destra, logge coperte. Ma mancano finora le prove giudiziarie per svelarne i nomi. È questa la silenziosa tolleranza che permette al clan di Buccinasco di sopravvivere a se stesso.

La calma spezzata

Il sintomo più grave degli ultimi mesi non è solo l’agguato al broker della droga Paolo Salvaggio, 60 anni, ucciso la mattina dell’11 ottobre lungo il viale alberato che costeggia il parco Spina Azzurra. Altrettanto grave è che Rocco Papalia, 71 anni, uno dei capi tornato a Buccinasco nel 2017 dopo un quarto di secolo in carcere, faccia dichiarazioni pubbliche in tv di questo tenore:

“Sa cosa ha detto il sindaco? Che io devo chiedere scusa alla cittadinanza. Io ho fatto più di lui perché io ho costruito mezza Buccinasco, con i mezzi miei, di scavi e movimento terra. Se c’è qualcuno che se ne deve andare, deve essere lui”.

Rino Pruiti, 58 anni, il sindaco candidato da una lista civica ora in giunta con il Pd, l’aveva educatamente invitato a chiedere scusa per la fama sinistra che la famiglia Papalia ha attaccato alla città. E anche per le tonnellate di rifiuti tossici che la parentela criminale a Buccinasco ha interrato ovunque: dalle migliaia di metri quadri inquinati nel parco intorno al quartiere residenziale di via Guido Rossa. Le parole di Rocco Papalia, pronunciate la scorsa estate, non hanno suscitato alcun seguito istituzionale.

La famiglia Papalia

Nella città-giardino di ventisettemila abitanti, non c’è stato nessun ricambio. I Papalia erano già da anni al vertice quando nel 1990, per rivendicare l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, furono i primi a usare la sigla terroristica “Falange armata”. La stessa con cui verranno poi firmati decine di delitti, comprese le stragi di mafia nel biennio di sangue 1992-1993.

E da allora Domenico e Antonio Papalia, i fratelli di Rocco, sono sempre gli stessi. Fuori e dentro le carceri. Per questo motivo i vecchi boss milanesi della Duomo connection avevano deciso di uccidere Rocco Papalia. Ma anche Domenico Papalia, il maggiore dei fratelli. Il boss Mommo Piromalli, a sua volta in contatto con un colonnello dei carabinieri, ex ufficiale dell’intelligence, aveva messo in giro la voce di aver ricevuto documenti che provavano l’accordo tra i Papalia e i servizi segreti. E quel giorno Domenico, ricercato per omicidio, piuttosto che andare all’appuntamento si è fatto arrestare. È detenuto da allora, a parte i tanti permessi premio ottenuti da ergastolano mai pentito.

La cooperazione parastatale farebbe ancora oggi della Quinta mafia di Buccinasco un feudo inespugnabile.

Stefano Mormile non si dà pace, affinché una nuova sentenza riscriva le motivazioni delle condanne definitive per l’omicidio del fratello Umberto. La versione processuale indica come unici mandanti Domenico e Antonio Papalia e Franco Coco Trovato, un altro rappresentante della ‘ndrangheta ai vertici del Consorzio. E come esecutori, Antonino Cuzzola e Antonio Schettini, diventati poi collaboratori. Cuzzola ha sempre indicato un livello superiore legato al Sisde, il servizio segreto civile di allora, che sfruttava la rete dei Papalia per raccogliere informazioni negli istituti penitenziari. Un’alleanza illecita, fatta di incontri riservati e permessi premio, che l’educatore aveva scoperto prima nel carcere di Parma e poi in quello milanese di Opera. Schettini, in sella a una moto guidata da Cuzzola, gli spara mentre il dipendente del ministero della Giustizia sta andando al lavoro la mattina dell’11 aprile 1990.

Mormile aveva scoperto che Domenico Papalia, quando usciva dal carcere grazie ai permessi, continuava ad avere contatti con la ’ndrangheta e per questo i suoi rapporti al Tribunale di sorveglianza erano costantemente negativi.

Il loro legame con il Consorzio è suggerito anche dall’esordio della nuova rivendicazione terroristica. Scrivono i giudici calabresi:

“Foschini, a riscontro di Cuzzola, ha confermato che Antonio Papalia aveva fatto rivendicare l’omicidio dell’educatore carcerario con la sigla ‘Falange armata’ L’utilizzo di tale sigla era stato consigliato ad Antonio Papalia dai servizi segreti”.

Sempre per conto terzi, avevano addirittura rivendicato alcuni omicidi della banda della Uno bianca, il capitolo bolognese di questa operazione stragista. Racconta Cuzzola: 

“Papalia era a Opera insieme a Schettini, Trovato, tutti questi qua. E c’erano dei momenti che ’sto Domenico Papalia diceva che andava dall’avvocato, che spariva e quando tornava al carcere convinceva Schettini a scrivere queste lettere accusando quelli della Uno… Evidentemente si vede che andava al colloquio, prendeva ordini e (li) distribuiva a Schettini”.

Quando si sbatte contro i consorziati della Quinta mafia, le inchieste non trovano le prove necessarie.

Come è accaduto con l’omicidio di un sindacalista di Confesercenti, Pietro Sanua, tra i fondatori dell’associazione antiracket “Sos impresa”: dal giorno dell’agguato a colpi di lupara, avvenuto nel 1995 vicino a Buccinasco, il silenzio dei clan è totale. Ma è anche il caso di una ragazza di diciotto anni, Cristina Mazzotti, rapita dalla ’ndrangheta nel 1975 in provincia di Como, uccisa e gettata in una discarica. Le nuove tecniche di indagine hanno scoperto sull’auto di Cristina l’impronta digitale del pollice destro di Demetrio Latella, già indagato e scagionato per l’omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia.

Il sindaco di Buccinasco ha la sensazione che ci si arrenda troppo presto. “La mia lamentela è la mancanza di collaborazione dell’altra parte dello Stato, mi riferisco alla magistratura e alle istituzioni in genere. Abbiamo installato telecamere che fanno il riconoscimento facciale. Sappiamo chi compra e chi vende immobili. Ma non riceviamo alcun riscontro”, dice Rino Pruiti. Nemmeno quando gli uffici del Comune sono riusciti a dimostrare chiaro e tondo che, nell’area verde di via della Resistenza, i rifiuti tossici pieni di cromo esavalente li aveva interrati l’impresa di Rosario Barbaro, fratello maggiore del boss Salvatore, parente e compare d’affari dei Papalia. “La Procura ha archiviato la denuncia”, rivela il sindaco.

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