All’indomani dell’assoluzione di Silvio Berlusconi sulla presunta concussione e prostituzione minorile operata dall’ex premier, abbiamo scoperto che i famigliari del pm Ilda Boccassini hanno avuto non pochi problemi con la giustizia.
Spulciando tra gli archivi di Repubblica, ad esempio, si scopre che lo zio, Nicola Boccassini, fu arrestato e condannato perché vendeva processi al tavolo da poker. “Ai tavoli verdi di Saint Vincent – si legge in un articolo del quotidiano di De Benedetti – Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò”. Lui, il magistrato, amava il gioco d’azzardo ma era un perdente e accumulava debiti su debiti. “Per pagarli – sostiene l’ accusa – il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie”. Era il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. “Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d’ albergo”, raccontò l’ industriale Elio Graziano, ex presidente dell’Avellino calcio. “Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz’ora con puntate sballate”. Le accuse per Boccassini furono pesanti: associazione a delinquere, concussione, corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio.
Anche il padre e il cugino di Ilda Boccassini caddero nelle maglie della giustizia. Il magistrato Alberto Nobili, ex marito del pm, si beccò una denuncia dal collega Pierluigi Vigna perché sospettato di collusioni con affiliati di Cosa Nostra che avevano le mani sull’Autoparco Milanese di via Salamone. L’accusa fu:”di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell’inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione”. (i fatti dell’epoca). Imolaoggi racconta che di quel processo non se ne fece nulla perché:“la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso”. Nell’autoparco sono transitati armi e droga per quasi 10 anni: dal 1984 al 1993. Un affare smantellato dai giudici fiorentini e che produceva 700milioni di lire al giorno.
Dai documenti su “La Trattativa” emerge che:”le affermazioni di Conso in merito alla mancata proroga dei provvedimenti di carcere duro ai primi di novembre del 1993, oltre a lasciare perplessi pressoché tutti gli osservatori, hanno trovato un’autorevole smentita nell’ex direttore del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) Nicolò Amato. Quest’ultimo era stato sostituito alla guida del Dap il 4 giugno 1993 dal magistratoAdalberto Capriotti, cui fu abbinato come vicedirettore Francesco Di Maggio, magistrato di punta alla Procura di Milano per quasi tutti gli anni Ottanta”. E ancora:“Nicolò Amato ha rivelato il proprio fermo convincimento che la paternità del mancato rinnovo dei 41-bis del 5 novembre 1993 vada attribuita proprio a Francesco Di Maggio, che era il vero dominus del Dap, alle spalle del ruolo meramente formale assegnato a Capriotti. Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi”.
Qualcuno appoggiava il progetto voluto da Riina e Gardini di:”acquisire Eni e poi di fondare Enimont – aggiunge Imolaoggi – e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia”. Sarebbero stati gli uomini di Di Maggio a contribuire alla strage di Capaci del 1992. Giovanni Falcone era in disaccordo con il progetto Enimont, sotto gestione di Andreotti e Craxi, e non voleva che tornasse nelle mani di Gardini e di Riina.
ZdO