Roma, 2.589 giorni dopo l’incipit di questa tragicommedia, cala il sipario su una delle tante pièce giudiziarie all’italiana.
Bigliettopoli: una giustizia da palcoscenico con sette anni di repliche assurde. La scena finale? L’archiviazione, ovvero il “colpo di teatro” con cui Stefano Esposito, ex senatore Pd, scopre di non essere un criminale incallito. La trama, tuttavia, ci ha tenuto incollati per anni con accuse roboanti di corruzione e traffico di influenze illecite. Una saga che avrebbe fatto impallidire persino i migliori sceneggiatori di Netflix.
Ma facciamo un passo indietro. Era il lontano 2006, Olimpiadi Invernali di Torino, quando Set Up Live, la società dell’imprenditore Giulio Muttoni, organizzava concerti mentre, a quanto pare, qualcuno intercettava telefonate e tramava dietro le quinte. Un decennio dopo, la “giustizia spettacolo” partoriva un’inchiesta battezzata con il solito titolo accattivante: Bigliettopoli. Un nome che prometteva emozioni e rivelazioni scottanti, ma che alla fine si è rivelato un flop da far arrossire persino un film di serie Z.
Il protagonista e il plot twist
Stefano Esposito, il nostro protagonista, ha vissuto sette anni da incubo giudiziario. Non uno o due mesi, ma un settennato intero in cui la sua vita e quella della sua famiglia sono state triturate. Lo dice lui stesso, con la solennità di chi ha appena finito di scalare l’Everest: “Sono stati anni di accuse infamanti e sofferenze incancellabili”.
Eppure, mentre l’ex senatore subiva il pubblico ludibrio, la macchina della giustizia continuava a ronzare indisturbata. Trasferimenti di fascicoli, pareri della Cassazione, interventi della Corte Costituzionale: un tour de force legale che farebbe impallidire qualsiasi azzeccagarbugli.
Alla fine, il gip di Roma ha messo la parola fine, accogliendo i dubbi della stessa procura romana sulla fondatezza delle accuse. In altre parole: “Oops, ci siamo sbagliati!”.
L’analisi (amara) della farsa
E qui, cari spettatori, arriva il momento della riflessione critica. Perché la vicenda di Esposito non è solo una parabola di accuse infondate e sofferenze personali. È soprattutto un manifesto dell’inefficienza e dell’arroganza di un sistema che preferisce macinare persone piuttosto che cercare la verità.
La giustizia italiana si dimostra ancora una volta un leviatano cieco e sordo, capace di stravolgere vite con una lentezza pachidermica e un’assoluta mancanza di empatia. Esposito è stato “assolto” dal tempo, non certo dalla macchina giudiziaria. Un tempo che, ironia della sorte, non restituirà mai a lui e alla sua famiglia.
E l’informazione? Beh, qui si potrebbe scrivere un romanzo. Perché mentre Esposito veniva trascinato nel fango, i giornali non si sono fatti scrupoli a trasformare ogni indiscrezione in titoli a effetto. Non è giornalismo, è infotainment da quattro soldi, dove i processi si celebrano prima sulle pagine dei quotidiani che nei tribunali.
Epilogo: l’uomo contro il nulla
Alla fine di questa tragicommedia, resta solo un uomo con le sue cicatrici, vittima di un sistema che non punisce solo chi è colpevole, ma strugge anche chi è innocente. Esposito ce l’ha fatta, ma quanti altri restano schiacciati senza poter raccontare la loro storia?
La giustizia non può ridursi a una lotteria, e il giornalismo non può essere complice di questo scempio. Forse è tempo di riscrivere il copione, prima che l’intero teatro crolli su se stesso. Ma nel frattempo, applausi (amari) per chi ha avuto la forza di resistere.