I vertici della Banca Popolare di Bari, sicuramente a partire dal 2014, hanno sistematicamente ostacolato il lavoro ispettivo della Banca d’Italia. Ma è anche vero che la Banca centrale avesse, già da tempo, perfettamente compreso che qualcosa non funzionasse nel più grande Istituto di credito del Mezzogiorno.
La domanda, a questo punto, nasce spontanea: perché nessuno non è accaduto nulla fino a venerdì scorso, ovvero il giorno del commissariamento?
Il salvataggio della Popolare di Bari
Il governo decide di salvare la Popolare di Bari approvando un decreto che stanzia 900 milioni per Invitalia perché finanzi il Microcredito centrale e gli consenta di acquisire quote della banca. Tra gli obiettivi c’è quello della creazione di una banca d’investimento, che nascerebbe dalla ‘scissione’ delle acquisizioni fatte dal Mediocredito centrale: l’impegno è sostenere le imprese del Mezzogiorno.
I 900 milioni
Stando ad alcune fonti, dei 900 milioni stanziati per il 2020 dal governo, alla Banca Popolare di Bari potrebbero servirne 500 e altri 400 potrebbero essere impiegati per rafforzare altre banche del Sud o sostenere imprese come l’Ilva.
Perché nulla è stato fatto prima?
Al momento la domanda non trova risposta. Ma sono chiari una serie di accadimenti avvenuti tra la Popolare e Bankitalia.
La prima ispezione
A ottobre del 2010, in conseguenza dell’ispezione che aveva condotto sui conti della Popolare il 4 maggio di quell’anno, la Banca d’Italia dispone il blocco di ogni iniziativa di espansione dell’istituto. L’eventuale crescita della Popolare non viene ritenuta sufficientemente sostenuta dai fondamentali di bilancio, né da un’adeguata trasparenza di una governance ridotta di fatto ad affare della famiglia Jacobini. Una situazione che, nelle successive ispezioni, peggiora. L’ispezione del 2013, punta il dito contro l’erogazione dei crediti ai clienti di riguardo della Popolare. Crediti che si trasformeranno rapidamente in sofferenze inesigibili e che oggi impiombano i conti della banca. Come riporta Repubblica, gli ispettori scrivevano: “Relativamente alla gestione dei rapporti con i gruppi Fusillo, Curci e la società da essi costituita nel 2012, Maiora Group S.p.a., già all’attenzione della vigilanza per il consistente supporto sotto varie forme fornito dalla banca, sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né esaustivamente rappresentati al consiglio. In generale l’esposizione verso i citati gruppi, che è di ben 177 milioni nel 2008, al 30 giugno si è attestato a 638 milioni nonostante negli anni la banca abbia acquistato da società sovvenute cespiti per 152 milioni, dei quali 131 milioni attraverso fondi immobiliari…”.
Stipendi d’oro
Sempre nel 2013 gli ispettori di Bankitalia evidenziano quattro anomalie che dovrebbero essere sufficienti a mettere la parola fine alla banca così come conosciuta e governata sin lì dagli Jacobini. I dirigenti da una parte rastrella i risparmi di una vita ai piccoli investitori-correntisti, dall’altra alza generosamente i propri emolumenti. I compensi al Consiglio di amministrazione si sono triplicati, attestandosi a oltre un milione e 400mila euro. Proprio al presidente Marco Jacobini, la Banca d’Italia aveva invitato a contenere il compenso entro i livelli assegnati in precedenza, 200 mila euro circa. E, invece, il consiglio gli ha riconosciuto una retribuzione annua di 600 mila euro.
C’è di più. Nel verbale ispettivo del 9 settembre si denunciano: “L’assenza di un ruolo incisivo da parte dei comitati con responsabilità in tema di governance, tutti presieduti da esponenti presenti in azienda da tempo”; “la mancata sostituzione del dottor Marco Jacobini, nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione che amplifica di fatto l’esigenza di presidiare accuratamente i potenziali conflitti di interesse all’interno della banca; la “farraginosità dell’iter decisionale su tematiche di competenza dei due Vicedirettori dovute all’adozione di misure quali l’allontanamento dalle riunioni o l’astensione del Presidente per ovviare alle situazioni di conflitto, che limitavano nel contempo la funzione di coordinamento nei lavori consiliari da parte della figura del Presidente”; “l’assenza di un adeguato sistema di controlli interni che necessita di ulteriori provvedimenti e di maggiore potenziamento con la istituzione della figura del Chief Risk Officer, responsabile della funzione di Risk Management, dotato di effettive autonomia ed autorevolezza”.
La sanzione ritirata
Le gravi anomalie riscontrate dagli ispettori di Bankitalia sono analoghe a quelle riscontrate a partire dal 2010. Nonostante tutto, in quel 2013, l’organo di vigilanza di Bankitalia non commina nessuna sanzione. Non solo. Dispone addirittura la revoca del provvedimento di blocco all’espansione della banca assunto nel maggio di tre anni prima. Il motivo è che negli atti acquisiti dalla Guardia di Finanza nell’inchiesta della Procura di Bari, allo stato, c’è soltanto una traccia, ovvero quella in cui Marco Jacobini, informa i consiglieri che “la vigilanza centrale di Bankitalia ci ha sollecitato a intervenire nell’operazione di salvataggio di Banca Tercas”. L’istituto abruzzese in quel momento sull’orlo del crac. Con cui Bankitalia è esposta per 480 milioni, il finanziamento concesso per tentare un primo salvataggio che però non era riuscito.
Il crac
Oggi ci sono persone che, a diverso titolo, sono iscritti nel registro degli indagati per falso in bilancio, false comunicazioni, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza, estorsione. Sono Marco Jacobini, 73 anni, il padrone della banca, presidente del suo consiglio di amministrazione e amministratore di fatto. I suoi figli Gianluca, 42 anni, vicedirettore generale dal 2011 al 2015, quindi condirettore e direttore generale di fatto, e Luigi, 46 anni, dal 2011 vicedirettore generale. Vincenzo De Bustis Figarola, 69 anni, già direttore generale ed amministratore delegato, banchiere preceduto dalla fama di essere un highlander uscito sempre illeso da storie complicate, in Banca 121, Mps e Deutsche Bank. Elia Circelli, 56 anni, responsabile della funzione bilancio e direttore delle operazioni della banca dal 2011. Vincenzo Marella, 53 anni, responsabile dell’internal audit. Roberto Pirola, 70 anni, ex presidente del collegio sindacale. Giorgio Papa, 63 anni, amministratore delegato dal 2015. Grazia Conti, 44 anni, responsabile della funzione compliance dal 2014 al 2016. Alberto Longo, 61 anni, presidente del collegio sindacale dal 2018.
La querela a Repubblica
“La verità sulla Popolare di Bari non si doveva conoscere. E, a Repubblica, con la querela era arrivata anche una diffida a desistere dal suo giornalismo. A ‘non reiterare le condotte diffamatorie pena un risarcimento ‘per una somma non inferiore a 100 milioni di euro’. Più o meno un decimo del buco che, ora, saranno chiamati a tamponare i contribuenti italiani per conto dei dieci indagati. E delle loro dieci mosse”.
Il buco della Tercas
Tra il 2014 e il 2015 la Popolare acquista la banca abruzzese Tercas per poco più di 300 milioni. A benedire l’acquisizione è , con Banca d’Italia. Dunque, si procede a un aumento di capitale attraverso la collocazione sul mercato di azioni e di obbligazioni subordinate dal rendimento spettacolare (6,5% annuo). La clientela di riferimento sono imprenditori e, soprattutto, piccoli risparmiatori. Tercas non è un affare né per la Popolare, né per i suoi azionisti, né per i risparmiatori.
Il falso in bilancio
Nel 2015 la Tercas si trova di fronte perdite per circa 250 milioni di euro che decide di occultare. Il Cda prima, l’assemblea dei soci poi, preparano il bilancio dell’anno precedente omettendo di svalutare gli avviamenti di alcune fusioni. Ci sono, tra le altre, la Nuova banca Mediterranea, la Popolare di Calabria e, appunto, Tercas.
L’asta
“La chiusura del bilancio 2015, non ha risolto i problemi” spiega Repubblica nell’inchiesta. “Popolare sa che tra il valore reale delle azioni collocate l’anno prima e quello dichiarato, balla circa il 30 per cento. Il titolo, dunque, deve essere svalutato. Ma prima c’è da risolvere una questione. Molte di quelle azioni sono state vendute infatti a imprenditori esposti con la banca per cifre importanti. È il gioco delle “operazioni baciate” che ha già messo in ginocchio le banche venete: ti concedo un prestito a patto che ne userai una parte per acquistare le mie azioni. Accade così che, il 18 marzo, nell’ultima asta utile prima dell’assemblea dei soci del 24 aprile che svaluterà il titolo, alcuni azionisti, diciamo i più ‘fortunati’, riescono a liberarsi delle azioni scavalcando l’ordine cronologico dei venditori. Da questo momento in poi, le azioni puntano dritte verso l’abisso. Nessuno riuscirà a venderle. Il loro valore si scioglierà come neve al sole, arrivando a poco più di 2 euro prima che le negoziazioni vengano sospese.”
Il giochetto
Nel bilancio del 2015, Popolare occulta le perdite o omette il valore o, al contrario, appostando attivi che non esistono.
Il Fondo Atlante
Siamo al 2016, nel pieno della tempesta che sta spazzando via le banche venete. Atlante è il salvagente concepito dal governo per sottrarsi al naufragio. La Popolare partecipa al fondo per poco più di 24 milioni che, alla fine di quell’anno, si sono svalutati di un terzo (circa otto milioni e mezzo). “Dunque, quella minusvalenza dovrebbe pesare nel bilancio per il 33 per cento. Al contrario, la svalutazione viene iscritta per il 25 per cento.”
Miulli
L’ente ecclesiastico Miulli, ha bisogno di scontare un credito vantato nei confronti dell’Inps a valle della pronuncia di primo grado in un contenzioso amministrativo. La Banca Popolare di Bari sconta all’ente circa 32 milioni di euro, più interessi. Il 16 febbraio del 2017, la banca, subentrata all’Ente, viene condannata a pagare all’Inps 41,7 milioni di euro. Dovrebbe far fronte il Miulli. Ma, nel frattempo, è andato in concordato. Alla Popolare tornano solo 15 milioni. Il resto è sofferenza.
Investitori
Nel 2017 la situazione è pesante. La Banca Popolare di Chieti ha sul collo la Banca d’Italia e la Consob, che chiedono spiegazioni sui bilanci. Sono stati infatti spacciati come navigati investitori, agricoltori ottantenni, docenti di scuole medie in pensione, casalinghe vedove, manovali. In cambio, magari, di un mutuo concesso per l’acquisto di una prima casa ai figli. La Banca fa firmare agli ignari “investitori” moduli di accettazione del rischio.
Governance di famiglia
La Banca Popolare d Bari, sulla carta, ha, come vuole la legge, una governance che dovrebbe assicurare trasparenza e controlli interni incrociati. Ma, alla Popolare, la governance è una maschera che cela quello che sanno anche i sassi.
Il fondo Maltese
“Tra il dicembre del 2018 e il marzo 2019 – scrive ancora Repubblica – l’amministratore delegato De Bustis propone al consiglio di amministrazione un’iniziativa di patrimonializzazione attraverso uno strumento che ricorda un bond per un ammontare di 30 milioni. Subito dopo, la Popolare riceve una richiesta irrevocabile di adesione da parte di una società maltese, la Muse ventures ltd. per l’intero importo: 30 milioni. Contemporaneamente, De Bustis, siamo al gennaio di quest’anno, acquista quote di un fondo lussemburghese, il Naxos plus, per 51 milioni. È un’operazione accreditata come necessaria ad aumentare il valore delle partecipazioni della Popolare e che sarebbe stata in parte coperta dall’impegno con il fondo maltese. In realtà, le cose vanno in altro modo. Il Muse è una scatola vuota, con un capitale sociale di 1.200 euro ed è riconducibile a tale Gianluigi Torzi, finanziere con una lunga coda di inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto. I 30 milioni, va da sé, da Malta non arriveranno mai, ma, dal Lussemburgo, chiedono in compenso i 51 a Bari.”
La storia, triste, della Banca Popolare di Bari.