L’articolo 358 di procedura penale rappresenta una norma importante – ma anche simbolico – della Carta costituzionale. Una norma, però, spesso dimenticata dalla Pubblica accusa.
“Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.
In sostanza, la norma di cui all’art. 326 elimina la figura del giudice inquirente, affidando la gestione della fase investigativa al solo pubblico ministero (con l’ausilio della polizia giudiziaria), incidendo in tal modo sui connotati qualitativi della fase investigativa, quanto su quelli quantitativi, ovvero sul contenuto dell’attività di indagine.
Nell’esercizio delle sue funzioni investigative, dunque, il pubblico ministero svolge ogni attività necessaria al fine di decidere se esercitare o meno l’azione penale, svolgendo altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.
Una parte, quest’ultima, che spesso dalle Procure non hanno debitamente applicato visti i numerosi casi di assoluzione avvenuti nella storia giudiziaria italiana. Norma, tra l’altro, su cui è tornata più volte anche la Cassazione.
I giudici nella sentenza numero 10061 del 4 marzo 2013 scrivono:
“Il dovere del P.M. di svolgere attività di indagine a favore dell’indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, sicché la sua violazione non può essere dedotta con ricorso per cassazione proposto per mancata assunzione di una prova decisiva. (Nella specie, la Corte ha evidenziato che la difesa può comunque svolgere attività di indagine in via autonoma rispetto al P.M. nonché formulare proprie richieste istruttorie nel giudizio ordinario o abbreviato)”.
Il 16 ottobre 2018, con la sentenza numero 47013 tornano nuovamente sulla questione:
“Il dovere del pubblico ministero di svolgere attività d’indagine a favore dell’indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, sicché la sua violazione non può essere dedotta con ricorso per cassazione fondato sulla mancata assunzione di una prova decisiva. (In motivazione la Corte ha chiarito che la valutazione della necessità di accertare fatti e circostanze favorevoli spetta unicamente al pubblico ministero, che agisce come organo di giustizia, non essendo vincolato, in tale veste, dalle indicazioni della difesa)”.
Gli errori della Giustizia italiana
Per avere una prima idea di quanti sono gli errori giudiziari in Italia vale la pena di mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Ebbene, dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi sono stati 29659: in media, poco più di 988 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 869.754.850 euro e spiccioli, per una media appena superiore ai 28 milioni e 990 mila euro l’anno. Nel 2020 i casi di ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva in indennizzi pari a 36.958.648,64 euro. Dal 1991 al 31 dicembre 2021 il totale degli errori giudiziari è di 207, con una media appena inferiore a 7 l’anno. La spesa in risarcimenti è di 74.983.300,01 euro.
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“Associazione 358”
Una situazione che ha portato alla nascita dell’Associazione 358. L’idea è venuta a Luciano D’Alfonso. Il senatore ha preso spunto dall’assoluzione con formula piena dell’ex rettore dell’Università di Teramo, Luciano D’Amico.
“Un po’ di denuncismo da parte dei soliti avversari”, afferma il senatore, “con un sistema dell’accusa che deve rivedere il suo modo di lavorare, ci hanno privato dell’entusiasmo, della professionalità e delle competenze di D’Amico”. D’Alfonso si chiede anche il perché “arrivare a quelle accuse gigantografiche che poi si rivelano costruite sul niente, tanto che le assoluzioni parlano di inesistenza dei fatti?”. La necessità è quella di riunire accademici, avvocati e persone che hanno vissuto fatti analoghi per dar vita all’Associazione. “Nominai io D’Amico ai vertici della società di trasporto. Fu una intuizione giusta e di successo visti i risultati, concordata anche con il mondo del lavoro. Poi si è attivata la macchina del fango”.
Correva l’anno 2016…
L’ex governatore d’Abruzzo, oggi senatore del Pd, promette di andare a fondo alla vicenda. Soprattutto perché, negli anni, è stato oggetto di una persecuzione giudiziaria. E di D’Amico, all’epoca in cui venne indagato disse:
“Luciano D’Amico è una figura angelica, angelicata e integerrima”.
Erano i giorni, appunto, in cui la procura teramana indagò sul doppio incarico pubblico a D’Amico, rettore dell’ateneo teramano e presidente della Tua, la società di trasporto unico. Nel fascicolo del pm Davide Rosati D’Amico fu indagato per abuso d’ufficio. Scriveva D’Alfonso riferendosi a D’Amico:
“Egli può ben vantare la forza dei risultati ottenuti e l’essere un tecnico estraneo ai bizantinismi di certa politica. La sua moralità immacolata è garanzia di rettitudine. E sono sicuro che qualsiasi accertamento sul suo operato si concluderà con la constatazione che egli ha sempre agito rispettando le norme”.
D’Amico a ottobre scorso è stato assolto. “La formula assolutoria utilizzata – scrive oggi D’Alfonso – mi autorizza a ritenere, in attesa di leggere le motivazioni, che se fosse stato tenuto in conto l’art. 358 c.p.p. non avremmo organizzato un inutile patimento in capo al cittadino Luciano D’Amico ed un patimento all’ordinamento giudiziario, che si poteva evitare se fossero stati ricercati gli elementi a favore dell’indagato”.