Il New York Times è solo l’ultimo, in ordine di tempo, tra i grandi media d’informazione ad aver annunciato tagli drastici nella redazione. L’avvento del digitale ha distrutto carriere e abbattuto muri mentali che tenevano in ostaggio i cervelli dell’intero pianeta. Non a tutti, però, appare chiaro cosa sta accadendo. Specialmente a certa politica.
In cento dovranno rimboccarsi le maniche e trovare un nuovo lavoro per sopravvivere. Sono quei cento giornalisti, pari al 7,5% di professionisti presenti nella redazione, che dovranno dire addio alle scrivanie del New York Times.
Ad annunciarlo l’editore, Arthur Sulzberger Jr, che reinvestirà i soldi per salvaguardare il futuro del giornale. Dean Baquet, il direttore del quotidiano, ha detto ai colleghi di usare la situazione “come una opportunità per riconsiderare seriamente cosa fare: dal numero di sezioni alla quantità di denaro che spendiamo per i contenuti prodotti dai freelance”. Una scelta necessaria visto che Sulzberger è stato costretto a chiudere NYT Opinion, un’applicazione creata per commentare gli editoriali e spingere gli utenti alla sottoscrizione degli abbonamenti. Evidentemente lo stesso editore non aveva ben compreso il fatto che i suoi giornalisti non sapessero che pesci pigliare per affrontare le nuove sfide digitali. Il web è cosa ben diversa dalla carta.
Sulzberger Jr lo capì un po’ di tempo dopo quando, in un rapporto denominato Innovation, venne fuori, tra l’altro, che solo un terzo dei lettori visitava la homepage e quelli che lo fanno ci passano sempre meno tempo. “Il Times deve fare di più per promuovere i suoi articoli sui social network. Sperimentazione, promozione e coinvolgimento dei lettori sono attività marginali e sono svolte da una piccola squadra di social media editor, invece tutti i giornalisti dovrebbero essere coinvolti nella promozione dei contenuti”. Sperimentazione, linguaggio, squadra, innovazione, promozione e condivisione sono le parole d’ordine. ‘Tag’ completamente assenti sia nell’attuale direzione sia in quella precedente dell’allora direttrice Jill Abramson.
Nel frattempo che la stampa classica capisca di che morte dovrà morire, un numero sempre crescente di semplici cittadini da tempo sperimenta nuove forme di comunicazione. È il caso, manco a dirlo, di migliaia di blogger sparsi in tutto il mondo e che, avventuratisi per gioco nel mondo della e-information, si ritrovano oggi tra le dita potenti piattaforme informative in gradi di fare opinione. Ciò accade in tutti le parti del mondo e, pensate un po’, anche in Italia dove le cose procedono a rilento per via di lobby che non si vogliono far togliere la pietanza dai denti.
Nel bel Paese, intanto, esiste un Ordine dei Giornalisti che attua le norme di accesso alla professione giornalistica, inizialmente fissate nel 1928 e riconfermate dalla legge n. 69 del 1963. Sarebbero potuti nascere in Italia idee come quelle di Gawker, blog di gossip e notizie sulle celebrità di New York, o come Gizmodo, Deadspin, Jezebel e Lifehacker? Forse sì, forse no. Fatto sta che la tendenza attuale è quella di annullare completamente le differenze tra blog e giornali. Si assiste, a livello globale, ad un rimescolamento continuo di genere, metodi e modelli che in America (tanto per ribadirlo ancora una volta) i blogger (non tutti) hanno pari dignità di una testata giornalistica.
“Le differenze non esistono” hanno spiegato sia Joel Johnson blogger di Gizmodo sia il giornalista Scott Rosenberg, autore di Say everything parlando con Farhad Manjoo, columnist di Slate esperto di tecnologia.
In realtà una differenza esiste: i blogger iniziano la loro esperienza in un garage o in una cantina e quando ‘svoltano’ riescono ad occuparsi di tutto senza avere grosse coperture politiche. I giornalisti, in genere, di questo mondo non sanno nulla. O quasi.
ZdO