Signore e signori ecco a voi la giustizia italiana. Una giustizia che ha contribuito alla caduta di un governo eletto e che ha inciso in maniera determinante sulle libertà individuali e i rapporti umani di persone finite nel tritacarne mediatico-giudiziario.
di Antonio Del Furbo
Ancora una volta, inchieste che partono con un grande clamore “giustizialista”, finiscono nel nulla. L’ultima, in ordine di tempo, è quella che ha visto, per anni, al centro di presunti scandali Fabrizio Di Stefano, ex parlamentare del centrodestra, Lanfranco Venturoni, ex consigliere e assessore regionale abruzzese di centrodestra e, infine, Rodolfo Di Zio, imprenditore del settore dei rifiuti.
Le accuse, pesantissime e messe in piedi all’epoca dalla Procura di Pescara, andavano dalla corruzione alla turbativa d’asta passando per l’abuso d’ufficio. L’inchiesta “Re Mida” riguardò la cosiddetta “Rifiutopoli” abruzzese.
Dopo il “massacro” giudiziario, si scopre, ben otto anni dopo, che era tutta fuffa. I giudici della Corte d’Appello, infatti, hanno dato ragione ai colleghi del primo grado che avevano assolto, oltre ai tre, anche Ferdinando Di Zio e Vittorio Cardarelli. Una sentenza a cui, tra l’altro, la Procura pescarese non si era nemmeno appellata.
Dunque, a distanza di di quasi dieci anni dall’inizio dell’inchiesta, il popolo italiano, finalmente, è venuto a sapere che politici e imprenditori arrestati come i peggiori criminali, in quell’inchiesta non c’entravano nulla e che quegli atti criminosi non erano mai stati commessi.
“Le numerose intercettazioni telefoniche e ambientali”, scrisse addirittura il giudice Spinosa, “consentono di delineare uno scenario in cui appare evidente che la regione Abruzzo è stata in quegli anni vittima di un regime di monopolio nel settore dello smaltimento dei rifiuti che, certamente, condizionava l’imposizione di tariffe alle pubbliche amministrazioni”.
Come ho già raccontato in occasione della precedente assoluzione, ricordo bene quel periodo di caccia alle streghe e, soprattutto, quella mattina del lontano settembre 2010 quando furono arrestati l’allora assessore regionale alla sanità, Lanfranco Venturoni e l’imprenditore Rodolfo Di Zio. Furono mobilitati una decina di uomini che per 700 giorni hanno sbobinato 50.000 conversazioni telefoniche avvenute tra i Di Zio, Venturoni e il senatore Fabrizio Di Stefano.
Si parlò di compravendita di politici, di registrazione di atti che avvantaggiavano aziende monopoliste piuttosto che altre. Venturoni fu descritto come uomo “garante dei Di Zio”. A Di Stefano fu dato il marchio di grande manovratore in grado di incidere in maniera determinante nei confronti della politica al servizio del gruppo privato.
Al centro dell’inchiesta la realizzazione, a Teramo, di un impianto di bioessicazione dei rifiuti in cui, secondo i pm, Venturoni, in qualità di presidente del cda della Team, avrebbe ‘spinto’ i Di Zio per la conclusione dell’affare. Si parlò di totale asservimento della politica al privato e inviati avvisi di garanzia ad altri 10 indagati tra cui il senatore Pdl, Fabrizio Di Stefano. “Sono stato raggiunto da un avviso di garanzia le cui motivazioni vengo a conoscere dagli organi di stampa” disse Di Stefano appena saputo del suo coinvolgimento nell’inchiesta.”
Indimenticabili le dichiarazioni dell’ex procuratore di Pescara (poi passato in politica con scarsissimi risultati), Nicola Trifuoggi che parlò in conferenza stampa di un’inchiesta eclatante più di quella di Sanitopoli.
Sulla vicenda intervenne persino l’arcivescovo cattolico e teologo italiano metropolita di Chieti-Vasto, Monsignor Bruno Forte che, durante un’omelia, tuonò:“Siamo disgustati da questa politica, sta dando uno spettacolo vergognoso”.
Se la Costituzione non permette l’elezione di un giudice o di rappresentanti ecclesiastici ci sarà un motivo. Forse più di un motivo.