Meloni indagata: la storia di un'inchiesta senza processo
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Il fascicolo è stato aperto, il registro degli indagati aggiornato, la procedura avviata. Ma di un vero processo, statene certi, non se ne parlerà mai.

Meloni indagata: la storia di un’inchiesta senza processo. Il governo ha i numeri in Parlamento per fermare tutto sul nascere e nessuno, in quel palazzo, avrà voglia di lasciar correre un’iniziativa del genere. Eppure, il procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, di fronte alla denuncia presentata, non poteva fare altro: ha dovuto aprire l’indagine e trasmettere il procedimento al Tribunale dei ministri. Non per curiosità, non per accanimento, ma perché la legge dice così. Nessuna indagine preliminare, nessun atto acquisito: un passaggio formale, ma dal peso politico incalcolabile.

A scatenare il caso, un esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti, che punta il dito su due presunti reati: favoreggiamento personale (per il generale libico Najeen Osama Almasri) e peculato (per l’uso di un aereo di Stato destinato al rimpatrio). Reati che, nell’impianto accusatorio, ricadrebbero direttamente su membri del governo: il Presidente del Consiglio, i ministri della Giustizia e dell’Interno, e perfino il sottosegretario con delega ai servizi segreti. L’ipotesi è che abbiano deliberatamente favorito il rilascio di Almasri e ne abbiano organizzato il rimpatrio, aggirando ogni procedura prevista dalla giustizia internazionale.

Ma il Tribunale dei ministri, incaricato di valutare se gli indizi siano fondati, ha ricevuto solo l’esposto e qualche articolo di giornale. Niente ordinanze, niente comunicazioni ufficiali. Nemmeno il provvedimento della Corte d’Appello di Roma, che avrebbe dovuto mettere nero su bianco che il ministro della Giustizia era stato informato subito dell’arresto del generale libico, ma non aveva mosso un dito per trattenerlo. Lo Voi non ha acquisito nulla: la legge glielo impedisce. L’indagine, insomma, si regge su una denuncia e poco più.

Una vicenda senza “toghe rosse” e con molte ombre

In questa storia non ci sono “toghe rosse”, almeno non nel senso classico del termine. Il procuratore Lo Voi non è certo un uomo della sinistra giudiziaria. Rappresentante di Magistratura Indipendente, ha già innescato inchieste pesanti come quelle sui casi Open Arms e Diciotti che hanno coinvolto Matteo Salvini. All’epoca, il Senato negò l’autorizzazione a procedere per Diciotti, mentre per Open Arms il leader della Lega venne assolto. Stavolta però il caso è diverso: dietro c’è un confronto tra il governo italiano e la Corte penale internazionale dell’Aia, che aveva chiesto la consegna di Almasri per crimini di guerra, torture e stupri.

L’avvocato Li Gotti, che ha firmato l’esposto, non è certo un neofita della giustizia. Ex esponente del MSI e poi di Alleanza Nazionale, negli anni 2000 si è avvicinato all’Italia dei Valori di Di Pietro. Ha difeso familiari di vittime degli “anni di piombo” e numerosi pentiti di mafia. Conosce la macchina giudiziaria e sa benissimo cosa significa presentare una denuncia del genere.

Il punto è che il ministro della Giustizia Nordio aveva almeno un’altra responsabilità potenziale: l’omissione di atti d’ufficio, non contestata da Li Gotti, ma che pure sarebbe emersa nel momento in cui la giustizia italiana avesse dovuto rispondere alla Corte dell’Aia. La normativa che disciplina la cooperazione tra Italia e giustizia internazionale prevede che lo Stato debba immediatamente attivarsi per l’arresto e la consegna di chi sia ricercato dalla Cpi. L’articolo 59 dello Statuto di Roma è chiaro: non servono valutazioni politiche, il fermo deve essere eseguito senza indugio. E invece, non solo Almasri è stato liberato, ma è stato rispedito a casa con un aereo di Stato, con un’operazione che può essere letta come un favoreggiamento a tutti gli effetti.

Il fronte politico e il braccio di ferro con i servizi segreti

L’inchiesta della Procura di Roma si inserisce in un clima di tensione crescente tra il governo e le istituzioni giudiziarie. Palazzo Chigi non ha gradito l’iniziativa, ma la vicenda non finisce qui. Un’altra miccia si è accesa con la pubblicazione di informazioni riservate sui rapporti tra l’Aisi (Agenzia per la Sicurezza Interna) e il capo di gabinetto della premier, Gaetano Caputi. Documenti che dovevano restare segreti sono finiti in un fascicolo giudiziario e resi accessibili alle parti coinvolte, con il rischio concreto che diventino pubblici. Un’ulteriore crepa nei rapporti tra politica e magistratura, con il governo sempre più insofferente a quello che definisce “attivismo giudiziario”.

Nel frattempo, il Tribunale dei ministri dovrà decidere cosa fare del procedimento. Le possibilità sono due: archiviare tutto o inviare il fascicolo al Parlamento, che potrà bloccare la richiesta di autorizzazione a procedere. Quale sia l’esito più probabile, è chiaro a tutti. E in questo gioco delle parti, Almasri è già lontano, libero di muoversi come meglio crede. La giustizia internazionale può aspettare. E il governo italiano ha già chiuso il caso.

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