Don Peppe Diana: la lunga strada verso la giustizia e la verità
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Il 19 marzo 1994, nella chiesa di Casal di Principe, don Giuseppe Diana fu assassinato a sangue freddo dalla camorra.

Don Peppe Diana: la lunga strada verso la giustizia e la verità. Una tragedia che sconvolse la comunità e lasciò un vuoto profondo nel cuore di chi combatte per la legalità. Tuttavia, l’uccisione non segnò la fine delle ingiustizie subite da questo giovane sacerdote: al danno fisico si aggiunse un’opera sistematica di diffamazione, perpetuata attraverso la stampa e culminata in titoli vergognosi che ne infangarono la memoria.

Ventun anni dopo, la famiglia di don Peppe Diana ha finalmente ottenuto un importante riconoscimento giudiziario. Una sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato per diffamazione l’editore Libra Editrice, responsabile delle testate “Cronache di Caserta” e “Cronache di Napoli”, a risarcire i fratelli del sacerdote con 100 mila euro. Una vittoria simbolica che restituisce dignità a un uomo la cui unica colpa fu opporsi alla camorra e ai suoi metodi brutali.

La campagna diffamatoria: un attacco alla memoria

Era il 28 marzo 2003 quando il “Corriere di Caserta” pubblicò un titolo in prima pagina che lasciò sgomenti: “Don Peppe Diana era un camorrista”. L’articolo interno rincarava la dose con un altro titolo infamante: “Don Diana custodiva le armi della camorra”. Parole che scatenarono un’ondata di indignazione e portarono la madre del sacerdote, Iolanda Di Tella, a dichiarare: “Mio figlio me lo stanno uccidendo un’altra volta”.

Don Peppe Diana era stato assassinato il giorno del suo onomastico, a soli 35 anni, mentre si preparava a celebrare la messa. Il killer, inviato dalla camorra, gli sparò cinque colpi di pistola, colpendolo alla testa, al collo e al volto. Era un avvertimento brutale per chiunque osasse sfidare il potere criminale.

Nonostante la tragedia, alcuni media trasformarono don Diana da vittima a presunto colpevole, distorcendo i fatti e manipolando informazioni per delegittimarlo. Una strategia che il Tribunale ha smascherato, definendo i titoli del “Corriere di Caserta” “maldestre manipolazioni” destinate a diffamare.

La sentenza: un riconoscimento tardivo

La decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rappresenta una pietra miliare nella lotta contro la delegittimazione postuma delle vittime della criminalità organizzata. I giudici hanno riconosciuto la gravità dell’offesa alla memoria di don Diana, sottolineando come quei titoli abbiano creato sgomento nella società civile e devastato ulteriormente i familiari del sacerdote.

Marisa ed Emilio, fratelli di don Peppe, hanno portato avanti una battaglia legale durata oltre due decenni, assistiti dall’avvocato Alessandro Marrese. La madre e il padre di don Diana, purtroppo, non hanno vissuto abbastanza per vedere questa vittoria, ma la sentenza rappresenta una forma di giustizia che, sebbene tardiva, riporta un po’ di luce sulla memoria del sacerdote.

Il sistema estorsivo dietro i media

Per comprendere come si sia potuti arrivare a una tale campagna diffamatoria, bisogna analizzare il contesto in cui operavano alcune testate giornalistiche. Maurizio Clemente, editore del “Corriere di Caserta” fino al 2003, è stato condannato in primo grado per estorsione a mezzo stampa. La sua strategia era chiara: pubblicare articoli diffamatori contro imprenditori, professionisti e politici per costringerli a stipulare contratti pubblicitari con le sue società.

Questo sistema, definito “estorsivo-ritorsivo” dai giudici, si basava sulla minaccia e sul ricatto. Sebbene alcune condanne siano finite in prescrizione, il modus operandi di Clemente e della sua rete editoriale è stato ampiamente documentato. Nel frattempo, Libra Editrice, subentrata nella gestione delle testate, ha continuato a ricevere finanziamenti pubblici per l’editoria, superando i 12 milioni di euro negli ultimi dieci anni.

Il ruolo della stampa nell’infangare le vittime

Uno degli episodi più eclatanti di manipolazione mediatica riguarda una fotografia trovata nello studio di don Diana. L’immagine ritraeva il sacerdote con due giovani donne, entrambe scout, durante una gita. Una foto del tutto innocua, che il “Corriere di Caserta” trasformò in un’accusa velata di comportamento immorale, titolando: “Don Diana a letto con due donne”.

Nonostante le smentite ufficiali e la chiarificazione da parte dei carabinieri coinvolti nelle indagini, quell’articolo contribuì a diffondere un’immagine distorta del sacerdote, alimentando il chiacchiericcio e le speculazioni.

La strategia della delegittimazione

La diffamazione di don Peppe Diana non fu un caso isolato, ma rientra in una strategia ben precisa adottata da certi media e ambienti vicini al potere mafioso. Delegittimare le vittime significa trasformarle in colpevoli, insinuando che fossero parte del sistema che combattevano. Questo approccio mina la credibilità delle vittime e scoraggia chiunque voglia opporsi alla criminalità organizzata.

Don Diana, con il suo impegno e le sue parole, rappresentava una minaccia per la camorra. La sua frase simbolo, “A voi le pistole, a noi la parola”, incarna la sua missione di educare le nuove generazioni alla legalità. Delegittimarlo significava neutralizzare il suo messaggio e impedire che diventasse un simbolo di resistenza.

La giustizia come arma contro il fango

Questa sentenza rappresenta un monito per chi utilizza la stampa in modo strumentale, ma anche una speranza per le famiglie delle vittime che lottano per mantenere intatta la memoria dei propri cari. La storia di don Peppe Diana è un esempio di come la verità possa emergere nonostante i tentativi di oscurarla.

Mentre celebriamo questa vittoria, resta il rammarico per il tempo trascorso e per le sofferenze inflitte ai familiari del sacerdote. Tuttavia, la memoria di don Diana è oggi più forte che mai, grazie alla determinazione della sua famiglia e di chi continua a lottare per la giustizia e la verità.

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