Il presidente voluto da Luigi Di Maio era già finito sotto attacco per la rendicontazione delle sue spese
Mimmo Parisi è amico caro di Luigi Di Maio. “Con Giggino ci sentiamo sempre… e però no, non mi ha detto niente: che succede?” racconta al Corriere.
Succede che Mario Draghi e il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) lo hanno fatto fuori. Lo sollevano dall’incarico di presidente e si apprestano a commissariare l’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. L’Anpal avrebbe dovuto realizzare la parte finale del visionario progetto pentastellato: trovare un’occupazione a chi percepisce il reddito di cittadinanza utilizzando i tremila navigator. Persone assunte, tra l’altro, non si sa come, a 1.600 euro netti al mese, più i 600 di bonus previsti dalla crisi Covid.
Come può fare la mente a non tornare a quel 27 ottobre del 2018 quando nella piazza di Montecitorio i parlamentari grillini in sit-in erano sorridenti al balcone? C’erano tutti: Vito Crimi, Danilo Toninelli con le dita della mano a V, e accanto Barbara Lezzi che saltellava scatenata, l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e poi al centro, addirittura scravattato, Luigi Di Maio, che urla la celebre sconcertante frase: “Abbiamo abolito la povertà!”.
Rientrando in Consiglio dei ministri, Toninelli chiede a Di Maio: “Scusa, mi sfugge un dettaglio: ma poi chi troverà un posto di lavoro ai milioni di italiani che percepiranno il reddito di cittadinanza appena annunciato?“.
Di Maio aveva già la soluzione: aveva contattato Domenico Parisi detto di anni 55 anni, guru italoamericano del reinserimento nel mondo del lavoro.
Consueto giro di interviste piene di promesse, titoli, passaggi nei tigì. Ma dopo tre mesi il presidente Parisi si accorge che le sue creature mitologiche, i cosiddetti navigator, sono ferme perché la app che dovrebbero usare non c’è, non esiste, sebbene valga 25 milioni di soldi pubblici. In un Paese normale, la storia si sarebbe conclusa qui. Dimissioni in serie, e una Procura che magari avrebbe potuto decidere di capirci qualcosa. Invece Parisi aggiunge: “Tra l’altro a me risulta che sui sistemi informativi di milioni ne sono stati impegnati 80, e mi chiedo: che fine hanno fatto?”.
Una domanda simile la pongono però pure a lui: tre lettere lo accusano di “mancata rendicontazione delle spese personali” — oltre 160 mila euro.
La storia si fa interessante
Domenico Parisi non avrebbe giustificato un conto così: 71 mila euro per viaggi Roma-Mississipi in business class; 55 mila per noleggio auto con autista; 32 mila per l’affitto di un appartamento ai Parioli; 5 mila per spostamenti in Italia; 3 mila per pasti.
Il 13 giugno scorso Parisi inciampa in qualche congiuntivo nel suo italiano incerto. “Certo che vado avanti e indietro con il Mississipi. Mia moglie vive lì, Di Maio lo sapeva, mica posso separarmi”. “In un’audizione, alla Camera, ho detto che volo in business per colpa del mal di schiena. Sono stato sciocco, volevo giustificarmi. Invece è un mio diritto”. “Dissi a Di Maio: Giggino, amico mio, lascio una cattedra universitaria prestigiosa, non posso rimetterci. Me li dai 240 mila euro? Lui rispose: tranquillo, Mimmo, non c’è problema. Alla fine sono purtroppo rimasto fermo a 160, ma mi accontento”.
Due ore dopo al telefono
“Ho saputo, ci ho pensato: fanno bene”.
A far cosa?
“A commissariare l’Anpal”.
Ma come? È l’agenzia che dirige…
“Sì, però ho capito che il ministro Orlando vuol fare tutto come si deve. Lo capisco, sono d’accordo con lui”.
Ammette di aver fallito?
“Io proprio no. È l’Anpal che non funziona”.
E lei, adesso? Tornerà in Mississipi?
“Lo aspetto”.
Ha riparlato con Di Maio?
“Giggino è sensibile, lui sa come stanno le cose.“