La politica italiana è riuscita a fare polemica anche sul caso coronavirus. Una polemica innescata dal “presidente del Consiglio per caso”, Giuseppe Conte. Il “non eletto” da nessuno si è scagliato, nei giorni scorsi, contro l’ospedale di Codogno denunciando la “gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi”.
In parole povere, dunque, per il ‘presidentissimo’ prestato alle gaffe politiche, i medici non avrebbero seguito le regole provocando la diffusione del Coronavirus. Manco a dirlo, le accuse del premier (si fa per dire, eh) hanno infastidito la Regione a guida leghista tanto che l’assessore Giulio Gallera e il governatore Attilio Fontana hanno definito “ignobile” l’attacco d2i Conte.
Il paziente uno
Tutto ruota attorno alla storia clinica di M.Y.M., il “paziente uno” risultato positivo al test del Coronavirus. Il 38enne, stando al racconto dei familiari, soffre i primi sintomi influenzali intorno al 14 febbraio. Il 18 si presenta in pronto soccorso, si fa visitare, non è grave e quindi viene rimandato a casa. Il giorno successivo, il 19, a causa del peggioramento delle condizioni scatta il ricovero. I test daranno esito positivo: Mattia è positivo al Coronavirus e Codogno si trasforma nel centro dell’epidemia italiana.
A quel punto il viavai dal nosocomio ha favorito l’amplificazione dell’epidemia. Però non è l’ospedale di Codogno il “focolaio” contro cui concentrare le responsabilità.
Perché, dunque, i medici hanno dimesso Mattia prima di fargli un tampone?
E perché non appena si è presentato in ospedale con la febbre non è stato isolato? La risposta, per entrambe le domande, è mollto semplice: perché le leggi non lo prevedono. A supporto dei medici della struttura sanitaria lodigiana ci sono le circolari e le ordinanze prodotte dal governo e dal ministero della Salute come ricorda Il Giornale.
Documenti che il premier per caso Conte dovrebbe conoscere.
La prima circolare è la numero 1997 emessa il 22 gennaio dal ministero. “I casi sospetti di nCoV – si legge – vanno visitati in un’area separata dagli altri pazienti e ospedalizzati in isolamento in un reparto di malattie infettive, possibilmente in una stanza singola, facendo loro indossare la mascherina chirurgica”. Si aggiungono, poi, quelle per la protezione degli operatori sanitari. Il “problema” è che Mattia nei primi giorni non rientrava tra i casi di “paziente sospetto”, almeno non secondo la definizione scritta dallo stesso ministero (aggiornata con la circolare del 27 gennaio).
Le ipotesi previste dal documento sono due:
- è da considerarsi un “caso sospetto” la persona che evidenzi una “infezione respiratoria acuta grave” con “febbre e tosse che ha richiesto il ricovero in ospedale” e che abbia una “storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia”, oppure sia “un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi ad eziologia sconosciuta”;
- è inoltre “sospetta” una persona “con malattia respiratoria acuta” che abbia avuto un “contatto stretto con un caso probabile o confermato da nCoV”, che abbia “visitato o lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan” oppure “lavorato o frequentato una struttura sanitaria” dove “sono stati ricoverati pazienti con infezioni nosocomiali da 2019-nCov”.
Nessuno di questi era il caso di Mattia. Alle prime domande dei medici, peraltro, il “paziente uno” aveva raccontato solo di “un viaggio a New York” e non ricordava contatti con soggetti rientrati dalla Cina. Solo al momento del ricovero, dunque il 19 febbraio, la moglie – e non lui direttamente – ricorderà della cena tra il marito e un amico tornato dalla Paese del Dragone.
Solo a quel punto è scattata la procedura: il paziente è stato sottoposto a test, il pronto soccorso chiuso e il personale ospedaliero messo in quarantena.
Ma il premier per caso, esperto in gaffe, evidentemente non è stato informato. Nemmeno da Rocco Casalino.