La procura distrettuale antimafia di Palermo ha fatto scattare un altro blitz, con 16 fermi. L’operazione è avvenuta nel regno della vecchia mafia, quella di Ciaculli, la periferia orientale di Palermo che un tempo era governata dal “Papa” Michele Greco.
I carabinieri del nucleo investigativo hanno arrestato suo nipote Giuseppe (il figlio di Salvatore detto il “senatore”, ha 63 anni) e due fedelissimi: era diventato Giuseppe Greco il nuovo padrino di Ciaculli. I poliziotti della sezione criminalità organizzata della squadra mobile hanno smantellato invece il piccolo esercito di mafiosi ed esattori del pizzo alle dipendenze del mandamento di Ciaculli, che è articolato in tre famiglie, Brancaccio, corso dei Mille e Roccella. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, racconta che erano stati sottomessi cinquanta fra commercianti e imprenditori, che hanno continuato a pagare il pizzo.
Nessuno ha denunciato. I boss puntavano ad ampliare il giro d’affari dopo il rallentamento nella macchina delle estorsioni imposto dall’emergenza pandemia, hanno tante famiglie di carcerati da assistere. Maurizio Di Fede, il boss di Roccella che non voleva mandare i bambini del quartiere alla manifestazione per Falcone, era uno dei principali registi della riorganizzazione mafiosa. “Hanno imposto il pizzo pure durante durante il lockdown – dice il questore Leopoldo Laricchia – un quadro inquietante, nei quartieri di quella parte di città nessuno ha mai denunciato”.
Le intercettazioni
Una storia nella storia che risale al maggio di tre anni fa. “Una bambina da un mese si prepara” per la manifestazione per la strage in ricordo della strage di Capaci. Il boss Maurizio Di Fede alla madre della piccola, sua amica, ordinò di non far partecipare la piccola a quell’evento: “Non ti permettere – era infuriato Di Fede, mafioso del clan di Roccella, che negli ultimi tempi ha preso sempre più potere – Io mai gliel’ho mandato mio figlio a queste cose… vergogna”.
La madre provò a placare l’ira del mafioso. “Ma in fondo, è solo una cosa scolastica”. Di Fede non voleva sentire ragioni: “Noi qua non ci immischiamo con i carabinieri”. E ancora: “Noi non ci immischiamo con Falcone e Borsellino… queste vergogne sono”. La madre della piccola insisteva, la bambina teneva particolarmente ad andare con i compagnetti al giardino della Magione, alla Kalsa, per l’iniziativa organizzata dalla Fondazione Falcone. Di Fede sbottò: “Alla Magione, là sono nati a cresciuti, i cornuti là sono nati”.
Il mafioso era sempre più infastidito, tornò più volte a casa dei suoi amici, per accertarsi che la piccola non andasse. Era diventata ormai una questione d’onore. Un giorno si portò dietro il giornale, che annunciava la manifestazione: “Anniversario della strage di Capaci, oltre settantamila studenti pronti a invadere Palermo”, lesse a voce alta. Apriti cielo. “Là dove deve andare la bambina, la sbirra”. La madre prese le difese della piccola. E pure lei fu apostrofata come “sbirra”: “Se gli mandi la bambina sei una sbirra”. Il boss sentenziò: “Falcone, minchia che cosa inutile”. Se la prese pure con gli insegnanti della bambina: “Questa scuola l’ha tutta per i fatti suoi”.
“L’odio dei padrini per i giudici”
Nelle intercettazioni viene raccontata la mafia in diretta. Dice il prefetto Francesco Messina, il direttore centrale anticrimine della polizia: “Queste parole fanno emergere tutto l’odio verso i giudici simbolo della lotta a Cosa nostra. I mafiosi hanno fatto una scelta di vita, che portano avanti fino alla morte, non è possibile pensare che possano essere recuperati a un sentire diverso, tranne che non scelgano di collaborare con la giustizia. Queste intercettazioni ci ricordano altresì l’importanza delle attività sociali e culturali fatte con i giovani, per la diffusione di una nuova cultura della legalità”.
Maria Falcone, la sorella del giudice assassinato a Capaci, rilancia: “Le gravissime parole pronunciate dal boss arrestato oggi sono la riprova dell’importanza del lavoro che facciamo nelle scuole, un lavoro che dà evidentemente fastidio alla mafia e che proprio per questo va portato avanti”. Il capo della squadra mobile di Palermo, Rodolfo Ruperti, spiega: “I mafiosi hanno paura di perdere il consenso fra le giovani generazioni. Partecipazione alle manifestazioni vuol dire prendere le distanze”.
L’asse con i clan americani
Insieme a Giuseppe Greco i carabinieri hanno arrestato anche Giuseppe Giuliano detto “Folonari” e Ignazio Ingrassia detto “Boiacane”, entrambi con un passato importante in Cosa nostra. “Ingrassia, consigliere di Greco, ha contatti con alcuni boss del clan Gambino di New York, ma anche con esponenti dell’ndrangheta” riferisce Repubblica. Puntava all’organizzazione di un grosso traffico internazionale di droga. “Se io riesco ad andare negli Stati Uniti – diceva, e non sospettava di essere intercettato – la mando io dalla Colombia, costa qualche 15000, 20000 al chilo… in America la prendo, a New York la prendono a 15000 al chilo, io li conosco quattro colombiani buoni e gli dico: vi fidate a farla arrivare là?”.
Il tentativo di un drammatico ritorno al passato: “L’operazione, che abbiamo denominato Stirpe – dice il generale Arturo Guarino, il comandante prorvinciale dei carabinieri – dimostra ancora una volta l’arroccamento di Cosa nostra palermitana intorno ai propri schemi organizzativi e valoriali tradizionali: la struttura del mandamento e delle famiglie, le relazioni con gli Usa, le estorsioni per sostenere i carcerati, il vincolo della discendenza di sangue”. Una mafia antica alla ricerca di nuovi affari e nuovi quadri dirigenti.
Con Maurizio Di Fede, la polizia ha arrestato Giovanni Di Lisciandro, Stefano Nolano, Angelo Vitrano, Gaspare Sanseverino, Girolamo Celesia, Sebastiano Caccamo, Giuseppe Ciresi, Onofrio Claudio Palma, Rosario Montalbano, Filippo Marcello Tutino, Salvarore Gucciardi e Giuseppe Caserta.